martedì 25 febbraio 2014

Marcia del Roccolo - di Gilberto Costa

“Al podista interessa unicamente la strada sotto i propri passi e quella sensazione di sgravio e liberazione che la corsa ad ogni metro gli strappa e restituisce”
MARCIA DEL ROCCOLO

Arenzano, elettrica, la sua luce ammaliante, lo spettro della primavera che riappare tremolante.
Gli immensi recipienti celeste, azzurro e blu cobalto si uniscono in un unico immenso salto.
Il cielo, il mare, sagomati dalla  carezza del vento che soffia ombra fredda, scivolando dai pennacchi bianchi del Beigua, sospinto dai balzi sereni della sua custode osservatrice.
L’ordine curato della Pinetina, il silenzio verde che custodisce, scosso unicamente dai tonfi delle aspettative dei costretti della strada.
Il mare appare improvviso, profondo, iracondo fra le fronde. Irregolare.
Un pugno nello stomaco  in fondo la discesa.
A fatica ecco il litorale. Corre mastodontico di traverso. Pugnalate profonde al costato, inferte al fegato.
Il muto dolore da una parte contrapposto alle persone a passeggio spensierate.
Gli occhi sofferenti gettati in cielo, nel mare. Lasciati rotolare in terra, calpestati dai nostri stessi passi.
L’imbuto ovale delle gallerie, buchi neri che ingollano e rendono informi di fatica.
Masticano e sputano fuori dalla miniera, ciuchi ciechi, orbi dallo stento.
Vasi comunicanti impietosi. Echi di dolore maledetti.
Il blu del mare presto si ritira, nascosto dalla domenica che sale.
Le curve si fanno lente, si muore poco a poco. Brevi resurrezioni attimi fuggenti.
 Le scatole di lamiera non capiscono il nostro salire scomposto, 
 gesticolano impazienti … accidenti!
Il mare d’asfalto agita onde anomale, ostacoli, di fatica lungo il  percorso.
Si combatte strenuamente contro la risacca del ritorno.
Il santuario è sospeso, galleggia nel mare della mente. Distrae e confonde.
L’agonia sportiva sembra non aver fine. La lotta è contro noi stessi, non ci sono avversari.
Veder a fianco la stessa luce fioca che lenta affievolisce sui volti di chi guerreggia,
misurandosi contro la propria condizione solleva tutti, reciprocamente,
in una sorta di “mal comune mezzo gaudio”.
C’è massimo rispetto, è tangibile, si spezza con le mani come il pane.
I cavalli, non finiscono mai. Pigri si lasciano strigliare dal nostro passaggio.
Ad un tratto, quando non c’è più battito, si lasciano i remi della propria zattera alla corrente
e si piange la resa, la solitudine della sconfitta, ecco come uno schiaffo
l’arrivo dietro la curva!

“Le corse, intese gare, a parer mio sono tutte durissime. Infernali! A renderle tali i nostri limiti.”


Di Gilberto Costa    

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