domenica 2 febbraio 2014

Portofino Run i 10 km raccontati da Gilberto Costa

PORTOFINO RUN 2014 SANTA MARGHERITA LIGURE CORSA PODISTICA DI 10 KM

[foto di Rita Marchet]

L’inverno ha ucciso l’estremità di gennaio abbattendosi sulle strade dei nostri giorni. Pioggia, neve, raffiche di vento. Tuttavia per il podista non fa differenza. Costretto  a correre perpetuamente contro quel divario dentro che lo consuma poco alla volta fino a divorarlo.
La gara invece è un infliggersi necessario. Testa le più mere velleità, pone  innanzi alla oggettività inesorabile, inflessibile, senza appello.
L’asfalto, il percorso, non contano; si è costretti a lasciare tutto al di la, fuori da quel cono visivo che proietta la fatica nella sfida disperata contro l’abisso delle proprie complessità.
Così ieri l’occasione propizia a Santa Margherita Ligure, di scena la Portofino Run. Dieci chilometri  intelligenti, un anticipo messo in scesa come antipasto  della Mezza delle Due Perle in programma la domenica del giorno dopo.
No, non mi sono divertito. Non ci riesco. E’ raro che accada in gara, impossibile se questa è  breve.
Non ne ho il tempo. Pronti via e sono  già immerso, un’apnea infinita senza respiro gravato dalla difficoltà di tenere il mio sandalo in linea di galleggiamento. Ho sofferto tanto, come sempre troppo.
Malgrado ciò non mi sono sottratto allo scontro lungo i rettifili, curve e saliscendi andati in frantumi dalle precipitazioni piovose dei giorni scorsi, rese pozzanghere immobili,
trappole silenti.
Il percorso schiacciato al monte dall’immenso specchio di sale fermo, gigante disteso, completamente pianeggiante, ha offerto il suo riflesso all’incommensurabile volta, irriconoscibili in una stretta livida.
Sagome indistinte di corpi abbracciati, amanti che si guardano, comunicando in un silenzio assordante  prima di fare l’amore.
Le evoluzioni  dei pennuti  bianchi, artisti impegnati a disegnare il cielo nel loro simulare la morte in mare, unico e indiviso momento di sospensione temporale dello stento.
I passi bagnati dei contendenti lungo la poderosa fisicità del monte  appassionato al litorale risuonano come tonfi di speranza, vanificati dal dolore che risale fino al cuore impazzito spinto in gola dal suo stesso rumore.
I muscoli degradati  dall’acido lattico perdono elasticità, fuori controllo finiscono per piangere lacrime di bile.
In preda al panico non si scorge più nulla, non ci si volta, terrorizzati di mostrare la propria scomparsa in volto a chi ci segue. Sospiro fatuo e consolatorio quando non si odono spettri in avvicinamento.
Si guarda oltre, alla fisionomia lontana di chi ci precede, sagome deformi, macchie in movimento che scivolano  lente nella curva, sfumano all’orizzonte. La vista orbata dal pianto di dolore che emerge come un’eruzione improvvisa di un vulcano sottomarino.
La corsa è energia, correre  è sollievo, ci si libera da i mostri che ci abitano dentro.
Si distanziano, allontanandoli nella perenne fuga dalla sofferenza che il caos ha disseminato lungo la corsa della vita.
E’ come vedere il sole nonostante non si guardi, riuscire a perdersi nel celeste benché celato dal mantello bigio che riveste la terra.
Fine corsa  segna l’interruzione della fatica. Lo sforzo  a contatto con l’arrivo rilascia endorfine di gioia.
La pace s’instaura sostituendo seppure per breve tempo l’angoscia che vive interiormente. 

Delusi e soddisfatti, vincitori e battuti si colorano di parole, in un forsennato vociferare di tempi e giustificazioni.
Presto dimenticheranno e torneranno a gareggiare in corsa nell’eterno calendario podistico della vita.

Di Gilberto Costa


Nessun commento:

Posta un commento