« Si calano a Bogliasco ognuno dai propri mille luoghi di provenienza, giungono in
ordine sparso, silenziosi. Sono mossi da quei demoni che custodiscono dentro,
spiriti benevoli all’uomo.
Donne e uomini vestiti come guerrieri di stoffa leggera per sfidare
il veleno del tempo che tramonta. Colorati come saltimbanchi sgargianti per dipingere il canovaccio grigio che ha
contaminato questo scorcio di primavera. Le prime luci dell’alba danno un volto
alla collera strepitosa del mare. Cavalloni bianchi marini liberati dal tritone
di Poseidone attaccano l’arenile indifeso del borgo sorpreso. »
Trail di Santa Croce edizione 2012
(Un passo
dignitoso.)
Di
fiamme Sísifo pure vidi che pene atroci soffriva una rupe gigante reggendo con
entrambe le braccia.
Ma quando già stava per superare la cima, allora lo travolgeva una forza violenta
di nuovo al piano rotolando cadeva la rupe
maligna. (Omero, Odissea,
libro XI, versi 593-598 trad.)Ma quando già stava per superare la cima, allora lo travolgeva una forza violenta
Il
trail di Santa Croce al terzo tentativo fa centro, si compie, completa. 50,3
km!
Finalmente
si corre, cammina … ci si trascina, per l’intera fisionomia del percorso
immaginato,voluto e desiderato, dagli amici & amiche dell’incantevole
abitato rivierasco incastonato uno sguardo appena finto oltre Genova.
Tessuti
al pettorale del Santa Croce come ricami di cotone Mouliné la corsa comincia.
Intanto, il mare iracondo, qualche metro sotto litiga con il vento, si ode il
clamore, rotola il fracasso, un gran chiasso.
La
gara, competizione ha inizio.
Brevi
sussurri, vocii, declivi, sequenza di tornanti d’asfalto ed ecco le porte per
l’inferno.
La
strada si dissolve sotto i nostri passi corti e, mentre ci incolonniamo chini
sul fiato attonito, alle nostre spalle
emerge cupo il mare in tutta la sua collera, nella quale combatte un’arca dei
giorni moderni rea di irritare la natura litigiosa di questo specchio immenso.
Presto
andrò a sommarmi con coloro i quali
dividerò da li a venire le scudisciate inferte dapprima da Eolo, lungo la prima
salita al cielo, il quale incurante delle preghiere terrene aprirà maligno il
recipiente del vento vomitandocelo addosso, dalla sua moltitudine percosso.
Vicini al primo fato, la nebbia, le nuvole, il fragore delle folate vengono
bagnate di pioggia scagliata dal dio Marte. Ci abbracciamo all’erba,
stringendoci alla paura di cadere, serrando la fila, correndo ognuno nel passo
dell’altro, cercando la stessa aderenza ad un terreno sordo di clemenza, cieco
di indulgenza.
Lungo
la discesa seguente raccogliamo guerrieri feriti a terra, sanguinanti, colpiti
da pietre acuminate, sparse da Zeus come mine antiuomo, vaganti quanto la loro
condotta dissennata.
Cupi
nel loro orgoglio, fieri in quelle poche, brevi parole: “Andate pure …”
Raggiungiamo
il piano pacato, ondulato, meraviglioso. Qui gli dei si placano,
permettendoci di godere drogati la
corsa, sollevati, sempre attenti a non incorrere nei trabocchetti disseminati
in ogni dove.
Viaggiamo
di comune accordo, estasiati. Il Caronte Zamba detta il passo, battendo lieve
il suo remo, le gambe, in queste
contrade ove in principio era caos, in seguito riordinate rese verdi disseminate. Sezionate da
disegni di ruscelli allegri, dove il
cinguettio degl’uccelli fa colonna sonora alle onde del cielo, dove la forza
calda del sole tuffandosi la sera nel
mare colora l’impercettibilità del diagramma all’orizzonte.
Nexxuno
osa superarlo, troppo cruente sarebbe la sua furia. Audaci unicamente nell’affiancarlo a turno per vedere i suoi
occhi sprigionar fiamma.
Vaghiamo
per ore in questo girotondo fra cielo monte e il mare, cementando la nostra
unione, ammucchiati alla fatica, vicini ai nostri limiti, distanti un braccio dal
ciglio del proprio baratro, sul filo di lama in equilibrio tagliente.
Saliamo
al Santuario di Santa Croce per un’erta vile, tagliente, una salita resa nuda
dal vento, siamo ancora legati tutti e tre insieme, Caronte, io ed Epifanio.
Giunti fuori il sagrato rupestre due profeti, messaggeri di giornata,
alzando l’indice della mano indicano la via per l’ultima ascesa, quella all’Olimpo.
Sgraniamo gli occhi esterrefatti, la bocca soffocata di commento;
provati, non domi ripartiamo. Camminiamo sulla schiena di un mostro erboso, una
creatura abnorme, aguzza nella sua prossimità, celata alla nostra vista dalla
tempesta che riecheggia.
Stretti in passi agri, brevi d’affanno, sfioriamo l’orlo del precipizio
di una caduta infinita, un passo dopo l’altro, senza chiederci quanti … un
altro ancora.
Raggiungiamo il passo degli Dei, lo traversiamo investiti dal clamore dei
nostri cuori che battono emozionati all’impazzata. Non si sente più il freddo,
l’acqua non bagna, la fatica non è più dolore, i kilometri non sono tormento,
la nebbia il grigio muta tutto in argento.
Scesi dal monte Olimpo, una lunga pietraia maledetta ci traghetta
perfidamente fuori dall’inferno agonistico, infliggendoci le ultime percosse
scivolose.
Un’altalena di creuze mattonate, vertiginose scalinate ci proiettano come
palle di cannone all’originale finale, simili ad onde umane sulla passeggiata a
mare, epilogo teatrale per la conclusione, un finale subliminale.
« C'è dentro di me
non so che spirito divino e demoniaco; quello appunto di cui anche Meleto,
scherzandoci sopra, scrisse nell'atto di accusa. Ed è come una voce che io ho
dentro sin da fanciullo; la quale, ogni volta che mi si fa sentire, sereno mi
dissuade da qualcosa che sto per compiere, e noni mi fa mai proposte. » (Apologia di Socrate, 31 d)
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