domenica 19 febbraio 2012

Arrampicata alla Bocchetta - di Elisabetta Iurilli

Bocchetta 2012

Sabato sera con i compagni delle elementari, pochi ma irriducibili, quando uno chiama si va, si fa il punto della situazione, ci si confronta con le difficoltà che la vita ci pone davanti. Amici da sempre, da quando ci si prestava il temperino o si barattavano le figurine. Mi vedono assonnata, mi dicono che mi porteranno a casa presto, sanno che per me la domenica è gara, non vogliono nessuna responsabilità sul mio pessimo piazzamento …
L’auto mi porta a Campomorone. Canticchio con la radio Strada facendo di Baglioni. Canzone adatta al giorno del mio compleanno. Festeggiarlo correndo è un bellissimo regalo. “… E sentirai la strada far battere il tuo cuore …” Il cuore batte dentro al petto di ognuno
di noi. Affronta la fatica, ci fa ansimare, ci fa gioire, provare emozioni, tira fuori il nostro meglio.
“Sei sola?” Mi chiede Walter “Sì” e gli racconto della caviglia di uno, dei venti giorni che non mi alleno dell’altro, del stasera faccio tardi, del no la Bocchetta no! E forse in quel momento prendo coscienza della difficoltà della gara. Dieci km in salita, ma di quelle toste, che non lasciano scampo.
La leggenda vuole che il primo km e mezzo sia il più difficile, ma che anche gli ultimi tre non scherzino. Intravedo Marco, se c’è lui ce la posso fare anche io. “No guarda, il pettorale non lo prendo, faccio qualche giro qui intorno e basta”. Possibile che questa gara faccia tanta paura?
Massimo mi dà alcune dritte prima della partenza, sembra un insegnante volenteroso con il suo alunno più testone. Seguirò il suo consiglio di “prenderla bassa” all’inizio, ma dopo bisogna vedere se le gambe risponderanno quando dovranno impegnarsi di più, bisogna vedere se reggeranno al ritmo incalzante o si faranno dominare dalla pendenza dei tornanti.
Al via si parte tutti insieme. Tutti su, curva dopo curva, un muro quel chilometro iniziale. Il tempo è umidissimo, una giornata uggiosa, tuttavia senza la temuta pioggia battente. A colorarla il nostro passaggio, le nostre giubbe dai colori fluorescenti che ci proteggono nei nostri allenamenti su asfalto o per boschi. Per strada la gente ci guarda curiosa, sa della nostra fatica, del nostro sudore e di quel muro, ma forse non sa che le nostre gambe sono indomite, non sa che quando vediamo una mattina di sole venderemmo l’anima per non andare al lavoro ed infilarci le scarpe da ginnastica. Forse questa gente non sa neanche che è due domeniche che ci annullano le gare a causa del freddo e della neve, ma a noi non è importato niente: siamo scesi in strada lo stesso, ci siamo forse vestiti di più, abbiamo fatto attenzione ai lastroni di ghiaccio, ci siamo mossi goffi tra il biancore della neve, ma della strada non abbiamo saputo fare a meno.
Passo dopo passo alterno corsa a camminata, i tornanti si continuano ad alternare impietosi, tagliamo le curve, siamo piccoli soldati, stiamo lottando. Cambia la natura intorno, il tipo di piante, allungo lo sguardo a sinistra, si apre una vallata bellissima che non conosco. Eppure c’è la nebbia, il tempo grigio, la natura ancora addormentata.
Corro, il cuore in gola, la fatica del salire “Meglio che stare tra le pignatte tutta la mattina” mi aveva detto Carla in partenza. Sacrosanta ragione. Eppure qua si soffre, ci si mette alla prova, non è semplice.
Penso ai miei anni che passano, a ciò che mi aspetta, alla mia voglia di mantenermi viva nonostante le candeline sulla torta siano quante i km di una maratona, a questo sport che mi consente di farlo e di scoprire me stessa, con i miei limiti, la mia testardaggine, la mia buona volontà, la mia voglia di mettermi in gioco. E’ bello correre.
I primi arrivati stanno ormai scendendo, li incrociamo. “Eli sei quasi arrivata” Sono amici, mi vedono soffrire mentono spudoratamente. Ognuno si sente in dovere di dire la sua sulla vicinanza del traguardo. Sono proprio così sfatta?
La nebbia si fa più fitta, penso alle conseguenze di tutto quest’umido sul mio corpo non più giovane, domani sarò bloccata dalla cervicale, ma per paura che se ne accorgano i miei familiari patirò in silenzio. Odio i “Te l’avevo detto” e i “ma dovevi proprio andare”.
Nella nebbia intravedo la presenza di più persone. Magari c’è davvero l’arrivo … ed è così, è fatta.
Vengo avvolta in una coperta, coccolata dai Volontari della Croce Rossa, rifocillata, scambiata per un uomo da un podista distratto, accompagnata al camper in partenza per il ritorno …
A dire il vero soffro più in quest’ultimo viaggio in discesa su quattro ruote che in tutta la salita di corsa. Il mio fisico non si adatta volentieri ai tornanti in auto, a tutte quelle curve sinuose malgrado l’autista guidi con perizia. Prego in cuor mio lo stomaco che se proprio deve produrre, lo faccia almeno all’arrivo, non durante il viaggio, siamo in troppi tutti stipati lì dentro, non è cosa. Quando scendiamo in piazza a Campomorone il mio colorito è verdognolo.
Saluto tutti e scappo a casa, a riprendermi, un bel regalo questa Bocchetta in salita.

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