martedì 3 maggio 2011

Tavola di Prato 2011 - di Elisabetta Iurilli

Tavola di Prato 2011
di Elisabetta Iurilli

Siamo sul pullman sulla via del rientro. I nostri nomi vengono diffusi al microfono accostati al tempo cronometrico impiegato in gara. Tutti applaudono, anche un bellissimo cagnolino partecipa abbaiando a festa ad ogni battito di mani. E’ la sintesi di una bellissima giornata passata in Toscana tra corse, mangiate, balli e giochi.
La giornata inizia a Genova in un’alba gelida e ventosa. Partiamo sperando di recuperare le ore di sonno di
questa domenica di primo maggio nel viaggio che attraversa l’Appennino, ma invano. Sarà la luce del sole che nasce, la voglia di far due chiacchiere, il paesaggio da ammirare dal finestrino, tanto per dormire c’è sempre tempo …
Quando arriviamo Tavola di Prato mi colpisce subito. Scritte pubblicitarie ed insegne recano la doppia scritta: accanto a quella italiana compare quella cinese. Subito un pullulare di pensieri riempie la mia testa, oggi, vista la festività, particolarmente orientata sui problemi del lavoro e dell’integrazione. Ma si deve correre e, in cuor mio, spero di vedere tanti cinesi in scarpe da ginnastica a festeggiare con noi il primo maggio in versione podista.
Speranze vane … siamo comunque tantissimi, la maggior parte toscani, ma anche noi di Genova ci difendiamo bene.
Correre in Toscana significa avere a che fare con gente dalla battuta pronta ed arguta. I loro modi di dire sempre così pittoreschi fanno sorridere noi liguri decisamente più orsi e musoni. E’ tutto un “Suvvia …”, un sentirsi un po’ “grulli”, una “c” che proprio non riesce ad uscire bene di bocca, un complimento che quando arriva di fa sentire una principessa d’altri tempi.
Tutti pigiati allo start, con l’inno nazionale suonato dalla banda. Poi via, liberi, in questa terra bellissima ed ospitale. Ci si insegue più o meno veloci, cercando di dare il meglio, di farci onore.
Corriamo in percorsi affascinanti ma “strani”. Non sembra vero che le uniche salite siano quelle dei dossi stradali che ogni tanto compaiono sull’asfalto. La salita, quella che toglie il fiato fin da subito, quella che spezza le gambe piano piano che subito non te ne rendi neanche conto, quella che ti si para davanti come muro, qui non esiste. Niente che le assomigli … quasi quasi manca un po’ … L’asfalto è il primo protagonista. Con innumerevoli rotonde presidiate da vigili che tengono a bada automobilisti tutto sommato pazienti.
Poi ci si allontana dal centro abitato e ci si ritrova in aperta campagna. Sterrato sotto i nostri piedi, prati verdi immensi a destra e sinistra. Corro e so che prima o poi vedrò un omino con buffi abiti medievali fermare il gruppo e chiedere: “Chi siete? Ma quanti siete? E da dove venite? Un fiorino!”[1]
Ma è solo la mia mente che vaga, per fortuna non si possono fermare le gazzelle africane che corrono più veloci del vento portando con sé i colori di Genova, e neanche tutto il branco di leoni che segue e che non riesce a raggiungerle.
Un breve tratto d’asfalto, altre rotonde e poi c’è l’erba. E i piedi che ci corrono sopra non capiscono subito quell’appoggio soffice e morbido così diverso dai precedenti. Da quanto non correvo nell’erba … e la mente va a me bambina nel campetto sotto casa dei miei genitori. Correvo per necessità, per non essere presa a nascondino, lo facevo di malavoglia, non mi piaceva correre, preferivo le Barbie …
Alla fine del prato una fontana. Sono tentata di fermarmi, il sole quando esce è caldo, io forse troppo vestita, ma decido di andare avanti senza fare soste. Mi si apre davanti un parco stupendo. Alberi ai lati, sterrato sotto i piedi, tanta ombra. Se abitassi qui di sicuro sarebbe questo il mio percorso d’allenamento. Oltre ancora verde. In alcuni punti selvaggio, in altri affinato manto erboso di campi da golf. Avanti a un ristoro “Suvvia, si è quasi finita la gara …” Ho sete e sono stanca, ma a pensare che è “quasi finita” mi viene il magone. Paesaggi, profumi, fiori, persone … mi sembra di non aver goduto ancora abbastanza di tutto quello che mi viene elargito.
Continuo la mia corsa ed arrivo ad un ponticello. “Non ci hanno fatto mancare proprio niente” mi dico felice nell’attraversarlo. Sull’altra riva di nuovo un prato. Ma questa volta solcato da un sentierino largo al massimo una trentina di centimetri. Proseguiamo in fila indiana. Penso che siamo buffi da vedere, dovremo somigliare a formichine, non a podisti in lotta tra loro. Ma correre nell’erba è più difficile, meglio adeguarsi alla situazione.
L’asfalto che arriva ci promette un traguardo vicino. “Stringi i denti, manca un chilometro” reca iscritto un cartello, questa volta solo in italiano.
So che ci sarà il marito da qualche parte con la sua macchina fotografica ad immortalare un altro pessimo risultato cronometrico e una grande gioia nel mio cuore. Quando arrivo sono sempre di ottimo umore. La scienza ne dà la sua spiegazione chimica basata su endorfine e quant’altro. Io so solo che correre mi rende felice e questo mi basta in barba al cronometro.
Sono però altresì contenta per quelli che il risultato l’hanno ottenuto. Scopro che i campioni, quelli veri, in questa gara hanno anche il dono raro della modestia, che innalza ancor più il loro valore sportivo.
Il pomeriggio, dopo un lauto pranzo, vedrà altre competizioni, di natura non sportiva, ma combattute anch’esse con enorme grinta e farcite di intense risate. Sia che si tratti di eleganti volteggi a suon di musica, che di discussi morsi di mela …


[1][1] “Non ci resta che piangere” Benigni, Troisi

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