sono Cosimo Schinaia, dei Maratoneti Genovesi e per 30 anni sono stato primario psichiatra a Genova e ora sono psicoanalista didatta della Società Psicoanalitica Italiana. Come forse avrete già letto (perché è stato pubblicata anche sul sito genovadicorsa) ho scritto l'introduzione al libro Corrrere la vita di Gabriele Rosa, di cui sono amico. A giorni sarà inaugurata in Kenia una mostra sul correre con le foto di Uliano Lucas e una mia introduzione. Di recente ho tenuto una conferenza presso il CONI.
Sull'ultimo numero della rivista di psicoanalisi Gli Argonauti è stato pubblicato un mio articolo che relativizza e arricchisce di termini psicologici il discorso sulle endorfine nella corsa di lunga lena. E' un lavoro con aspetti molto tecnici. Vi invio l'articolo completo e una forma ridotta, qualora trovassi l'articolo originale troppo specialistico. Un caro saluto. Cosimo
Cosimo
SCHINAIA, psichiatra, già primario presso il Dipartimento di salute mentale di
Genova e psicoanalista, membro ordinario con funzioni di training della Società
Psicoanalitica Italiana e full member of
International PsychoanalyticalAssociation.
dal movimento del corpo alla scrittura della vita:
riflessioni di uno psicoanalista maratoneta
“Ci vuole un gran fisico per correre dietro ai sogni”
(Stefano Benni)
INTRODUZIONE
“La complessità e la pluralità della vita si sono ribellate
a ogni ragione che pretenda di comprenderle e giudicarle ossia di dominarle, a
ogni fondamento che presuma di costituire la loro essenza e additar loro un
cammino” (Claudio Magris).
Tutto nella natura si muove e il movimento è
stato da sempre valutato come indice di vitalità, di evoluzione, di progresso.
Dalpneuma di Aristotele (Sull’anima, II, 1), il soffio che
identificava l’anima e metafisicamente
l’anima con la vita, contenuto nello
sperma e capace di indurre nel nascituro l’eidos,
la forma, alPántarhêihōspotamós, tutto
scorre come un fiumedi Eraclito, che sottolineava che v'è un logos sottostante
a questo continuo mutamento, un'armonia profonda che governa in modo oscuro e
inconoscibile la perenne dialettica fra contrari, che provoca il divenire
perpetuo degli enti sensibili.
Ricordo che psiche
per i Greci significa “soffio rinfrescante” e che tale significato si
ritrova anche presso gli Ebrei, come testimonia questo versetto della Genesi:
”Il Dio eterno formò l’uomo dalla polvere della terra, egli soffiò nelle sue
narici un respiro di vita e l’uomo divenne un essere vivente”. Molto più tardi
Lamarck (Ricerche sull’organizzazione dei
corpi viventi, 1802) concepì la vita come l’accumulo e l’interiorizzazione
continui e progressivi dei movimenti dei fluidi nei solidi, sotto la forma
iniziale di un tessuto cellulare.
Bateson (1972, p. 308) definisce il moto come il cambiamento più semplice e
familiare.
D’altronde, se pensiamo a come i futuri genitori
avvertano l’attività motoria spontanea del feto attraverso la parete uterina
come sinonimo di vita e di benessere, che va di pari passo con il giudizio di
sanità che viene dato dai medici e a come, al momento del parto, sia il pianto
del neonato, conseguente ai primi movimenti respiratori, a segnalare l’inizio
della vita sociale del lattante, ci rendiamo conto dell’enorme significato non
solo organico, ma simbolico e culturale che il movimento viene ad assumere. Il
piccolo animale, il bambino ha organicamente tanto bisogno di movimento in
termini assoluti e profondi, quanto del dormire e del mangiare. E’ necessario
che si agiti, che gridi, che respiri violentemente, che si lasci andare alle
attività esplosive del gioco. Essenzialmente libera e priva di obiettivi
specifici, l’attività motoria spontanea non è sostituibile con un corso di
ginnastica o con l’allenamento a uno sport, perché è la sola che precisamente
riesca a mettere in gioco tutti i muscoli del corpo in un utilissimo disordine.
Possiamo affermare che il movimento è l’unico supporto che possa essere
validamente utilizzato dall’uomo dalla vita intrauterina fino alla vecchiaia.
In fisiologia, la motilità si definisce come
l’insieme delle funzioni che assicurano la motricità. Freud nel Tre saggi sulla teoria sessuale dedica
una sezione all’attività muscolare che procura un piacere associato a un
soddisfacimento sessuale. Scrive (1905, p. 510): “Si sa che una grande attività
muscolare è per il bambino un bisogno, dal soddisfacimento del quale egli trae
un piacere straordinario. […] Numerose persone raccontano di avere sperimentato
i primi sintomi di eccitazione nei loro genitali durante zuffe o lotte con i
loro compagni di gioco, situazione questa nella quale, oltre lo sforzo
muscolare generale, si fa sentire anche un completo contatto cutaneo con l’avversario.
[…] Per molti individui il nesso infantile tra baruffe ed eccitamento sessuale
è una codeterminante per la direzione che in seguito preferiranno nella loro
pulsione sessuale”. In una nota aggiunta del 1909 Freud confermerà “la natura
sessuale del piacere di muoversi”, aggiungendo: “L’educazione moderna si serve,
com’è noto, largamente dello sport per deviare i giovani dall’attività
sessuale; sarebbe più giusto dire che essa sostituisce il godimento sessuale
con il piacere di muoversi e respinge l’attività sessuale a una delle sue
componenti autoerotiche” (p. 510). Per Freud quindi, la motricità appare
altrettanto essenziale nella ricerca del piacere e nel suo accomodamento con
l’esterno. Lo sport inoltreviene indicato come compromesso fra le intense
pulsioni sessuali e il necessario rapporto con la società circostante, la
sublimazione quindi di pulsioni basali in un’attività fortemente investita
dall’ambiente circostante. I primi lavori psicoanalitici su psicoanalisi e
sport risentono ovviamente della matrice freudiana e danno spazio soprattutto
agli aspetti difensivi insiti nello svolgimento dell’attività sportiva.
HeleneDeutsch (1926) ha evidenziato in un caso
clinico gli aspetti compensatori di un’incessante attività sportiva nei
riguardi di sentimenti di inferiorità determinati da impotenza sessuale.
Otto Fenichel (1939) ha esplorato gli aspetti
controfobici insiti nell’attività sportiva in relazione a stati di impotenza
che portano a un crescente bisogno di abilità, padronanza.
M. H.Sachs (1984) più recentemente ha descritto
un caso in cui il correre con modalità compulsive ed eccitatorie costituiva un
disperato tentativo di opporsi alla sofferenza psichica attraverso fantasie
difensive di marca narcisistica, quali la totale autosufficienza, l’invincibilità,
l’immortalità eArnold M. Cooper (1981, p. 271) ha definito “la corsa come un
metodo socialmente riconosciuto per la gratificazione di potenzialmente
pericolose tendenze narcisistiche e masochistiche”.
Harold
F. Searles (1960, pp. 11-12), sottolineando il valore del sentimento di
colleganza dell’uomo nei riguardi dell’ambiente non umano, si meraviglia che la
psicoanalisi non si sia sufficientemente occupata del “nostro amore per il
giardinaggio, del diletto che proviamo nel frequentare angoli amati della
natura; del piacere di praticare sport attivi […], che ci avvicinano
fisicamente alla natura”.
Danielle Quinodoz (1997), invece, partendo dalle
teorizzazioni kleiniane, valorizza la capacità dell’attività sportiva di
consentire l’esperienza della “vertigine”, legata all’angoscia, in dosi
maneggevoli, trasformando temporaneamente l’angoscia in piacere, ed evidenzia
come l’equipaggiamento sportivo e il contesto possano configurarsi come un buon
contenitore per le angosce dell’Io.
Simona Argentieri (2014) ricorda il gioco del
papà, che prende tra le mani il figlio piccolino e lo protende in alto, a
braccia tese, per cui per un istante il bambino viene lanciato in aria e poi
saldamente riafferrato, provando la piacevole ebbrezza del volo, ma anche un
po’ di paura e smarrimento. “È forse la prima occasione per sperimentare il
piacere della vertigine, che darà poi spunto alle infinite variazioni dei
divertimenti basati sul movimento del corpo nello spazio: dal girotondo alla
giostra, fino alle montagne russe” (Argentieri, 2014, p. 20).
A PROPOSITO DEL MOVIMENTO NELLE PRIME FASI DELLA VITA
“Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si
può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa
dell'impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si
raccoglie, viene e va” (Eraclito).
“Il corpo vivente non conserva neanche per un istante lo
stesso stato e la stessa composizione: più è attiva la sua vita, più sono
continui i suoi scambi e le sue metamorfosi” (Georges BaronCuvier).
L’intensità e l’espressività nella realizzazione
delle attività motorie sono intimamente connesse con la maturazione
dell’organismo, ma anche determinate, per quanto non univocamente,dalle
abitudini culturali e ambientali.Guardando agli aspetti socio-culturali, nella
stessa cultura occidentale sono notevoli le differenze circa la possibilità di
favorire,più o meno, la libertà dei movimenti nell’infante e nel bambino.In
alcune aree di cultura occidentale (meridionali) è ancora praticata la
fasciatura stretta del neonato, in base all’errata convinzione che tale pratica
favorisca la possibilità per le gambe di crescere dritte e sappiamo che
raddrizzare quanto viene vissuto come storto ha a che fare con molta della
pedagogia normalizzatrice. In alcuni gruppi di cultura non occidentale, per
esempio nella cultura indiana,è ancora in uso il cradleboard, una sorta di portabebè che tiene l’infante rigidamente
bloccato. Nell’isola di Bali viene scoraggiato o addirittura impedito ai
bambini di gattonare, perché il contatto diretto con il terreno viene
considerato una caratteristica strisciante tipica dei rettili.
Vi sono nelle varie modalità di allevamento dei
bambini restrizioni variabili della mobilità, della vicinanza, del contatto e
della concomitante pressione e della stimolazione che viene probabilmente
esercitata sugli organi escretori e genitali (per esempio quando il bambino è
adeso al dorso della madre).In alcune zone dell’India sono i bambini più grandi
che portano i più piccoli, che stanno a cavalcioni su un loro fianco e il
bambino piccolo per tenersi, fa pressione con i talloni contro la regione anale
e quella genitale del bambino grande. In Tailandia la motilità libera è
disapprovata, perché considerata disdicevole. Appena il bambino comincia a
correre, la mamma lo raccoglie e se lo mette dietro un fianco. Ciò può essere
in armonia con il prevalente orientamento buddista del Paese, che disapprova e
scoraggia la libera espressione delle emozioni.In alcuni gruppi culturali
l’espressione motoria è molto più libera e vivace nell’età adulta. Anche la
gestualità mostra caratteristiche e differenze notevoli. Si pensi ai
meridionali, alla mobilità delle loro espressioni visive, alle smorfie, alla
comunicativa gestualità, all’uso delle mani, al movimento del capo per
assentire o dissentire. Insomma, le differenze culturali influenzano la forma e
il vissuto delle posture e dei movimenti, che vengono indirizzati verso alcune
direzioni piuttosto che verso altre, soprattutto nella relazione madre-bambino.
Un bambino abituato a essere tenuto in fasce molto probabilmente avvertiràuna
sensazione di scomodità nel momento in cuiverrà tenuto in braccio con le
modalità prevalenti in un altro gruppo sociale. Per esempio un bambino tenuto
abitualmente dritto in braccio e con il capo sostenuto dalla mano dell’adulto,
come avviene ad Haiti, potrebbe piangere se fosse tenuto dall’adulto in
posizione orizzontale con gli avambracci estesi e separati, come avviene da
noi, o se stesse a cavalcioni sul fianco dell’adulto, come avviene in molti
paesi orientali(Mittelmann, 1954).
I movimenti durante i primi due anni di vita
possono essere raggruppati sotto cinque titoli (Mittelmann, 1954):
1) i cosiddetti movimenti randomdei neonati;
2) le configurazioni affettomotorie, che sono i patternsmotori che accompagnano reazioni
emozionali, quali gioia, paura e così via;
3) le configurazioni ritmiche vigorose e ben organizzate,
spesso di significato autoerotico – per esempio, dondolare e rimbalzare;
4) l’attività motoria più raffinata, inclusa la postura, la
locomozione e, in particolare, la manipolazione;
5) i fenomeni motori che sono elementi indispensabili per la
funzione di un altro organo o per fare un altro sforzo, come per es. i patterns motori che sottostanno alle
attività orali, come succhiare e mangiare.
Dai dieci mesi ai quattro-cinque anni troviamo due tipi di
manifestazioni motorie che possiamo considerare una prova dell’esistenza di
pulsioni motorie[1],che hanno ovviamente
variazioni individuali. Il bambino si impegna consistentemente in movimenti che
non hanno altro scopo che l’esperienza del movimento: gattonare, correre,
rimbalzare, saltare e girare su se stesso. Molte di queste attività sono
ritmiche o circolari.
Inoltre, le
attività motorie di quest’età, anche se dirette verso un obiettivo, per esempio
manipolare oggetti, sono continue ed eseguite con segni di coazione ripetitiva.
Se queste attività vengono bloccate, il bambino resta agitato e nervoso. Nei
gruppi di bambini più grandi, la prova evidente di una pulsione motoria è
rappresentata dalle attività sportive, in cui l’attività motoria in sé
rappresenta la motivazione più importante.
La curva
dell’esperienza motoria è più sostenuta e diffusa nella motilità del bambino
che non, per esempio nelle attività genitali dell’adulto, nonostante in
quest’ultima vi sia una chiara sequenza di eccitazione, attività,
soddisfacimento e rilassamento.
Il secondo e terzo
anno di vita costituiscono il periodo di massimo rapido sviluppo dell’abilità
motoria e la motilità costituisce uno degli elementi centrali per esercitare
alcune funzioni quali la padronanza, l’integrazione, il test di realtà e il
controllo degli impulsi. Certamente la pulsione motoria è presente in tutte le
età della vita, ma assume un valore dominante all’inizio del secondo anno e
resta dominante per alcuni anni. Il periodo di massimo rapido sviluppo delle
funzioni motorie (postura, locomozione, manipolazione) coincide con la
dominanza dell’impulso motorio. In questo periodo, la motilità è uno dei mezzi principali
per effettuare i test di realtà e l’integrazione. Il periodo è inoltre
caratterizzato psicologicamente dall’identificazione di tipo imitativo e
dall’incremento della valutazione di sé (autoaffermazione, autostima),
dell’indipendenza, dell’aggressività, della relativa paura della punizione,
della facilità con cui viene avvertita come una ferita la colpa o il rifiuto.
Il tentativo di nuove performances motorie è spesso accompagnato da un vissuto
di frustrazione, perplessità, particolarmente in relazione alla locomozione, da
paura di una caduta incontrollata. Quando poi le cose cominciano a funzionare,
ovviamente il vissuto è di gioia e la tendenza è quella della ripetizione. Il
sostegno dell’adulto all’ansia del bambino e la sua partecipazione alla gioia
per gli ostacoli superati, conduce a una positiva reazione circolare
interpersonale.
D’altro canto, è
proprio intorno all’attività motoria del bambino che nascono i primi scontri
con l’ambiente circostante, che conducono alle prime intense reazioni
nevrotiche. Ne deriva che è la relazione con i propri oggetti, e non solo
l’attività motoria in sé, a indirizzare fortemente il processo di test di
realtà. In situazioni acute di stress o in condizioni patologiche ci può essere
un revival delle precedenti forme
motorie, per esempio, il dondolare ritmico. Una sostenuta restrizione della
motilità durante la fase motoria dello sviluppo del bambino può condurre a
severi disturbi ansiosi e, più tardi, a un’iperattività compensatoria. Sappiamo
che l’angoscia determinata per esempio dal pericolo può portare a un aumento
della motilità, come il correre per sicurezza, o, all’opposto l’inattivazione
fino alla mancanza della funzione motoria. La depressione infantile determina
ipotonia e flessibilità cerea per es. negli schizofrenici. In situazioni di
notevole conflitto, il comportamento motorio può evidenziare fenomeni di
formazioni di compromesso, sostituzione, formazione reattiva, e l’alternanza di
fare e non fare. Un buon uso della mobilità è utile per la conciliazione
successiva a un’aggressione o a padroneggiare l’angoscia. In tutti gli
individui, malati o sani, la motilità gioca un significativo ruolo
psicodinamico, come si rileva dal comportamento motorio osservato, nella storia
passata e nei sogni.
A PROPOSITO DEL CORRERE, DELLE ENDORFINE E DELLA
MEMORIA IMPLICITA
“Amo l’atletica perché è poesia. Se la notte
sogno, sogno di essere un maratoneta” (Eugenio Montale).
“Proprio nello sforzo enorme e coraggioso di vincere la
fatica riusciamo a provare almeno per un istante, la sensazione autentica di
vivere” (MurakamiHaruki).
“L’uomo che corre a piedi è sempre presente al proprio
corpo: quando corre, avverte il proprio peso e la propria età ed è più che mai
consapevole di se stesso e del tempo della sua vita” (Milan Kundera).
Oggi si assiste, soprattutto nell’investimento
sportivo di alto livello, a una visione tecnicistica del corpo tendente ad
analizzare il movimento come una cosa in sé, dipendente soltanto dalle leggi
biomeccaniche, senza tenere conto che l’evolversi della motricità, intesa come
filo conduttore dello sviluppo attorno al quale si forgia l’unità
somatopsichica della persona, e l’ordine motorio sono l’oggetto stesso della
pratica sportiva e non un corollario. Per esempio, a tutti è noto il cosiddettorunner's
high
(sballo del corridore), che va
inteso come una certa sensazione di euforia riscontrata da molti atleti durante
la pratica sportiva prolungata. Alcune recenti ricerche hanno provato la
dipendenza di questa sensazione euforica dal rilascio di endorfine da parte del
lobo anteriore dell'ipofisi durante l'esercizio fisico di una certa durata.
Essendo necessario uno sforzo prolungato, il runner's high è molto più frequente in atleti specializzati nelle
attività aerobiche, in particolare maratona (da qui il nome) o ciclismo. Voglio
però proporvi un’altra visione del piacere provato nel correre (o nel pedalare)
che non è alternativa alla teoria del rilascio ipofisario di ormoni
endorfinici, ma che la integra ed arricchisce.
In virtù degli studi neuroscientifici, è possibile
distinguere tra memoria implicita o non
dichiarativae memoria esplicita o
dichiarativa. La memoria esplicita è quella per cui noi possiamo richiamare
in modo attivo alla mente uno specifico avvenimento del passato. La memoria
implicita, invece, conserva esperienze che non è possibile richiamare
attivamente alla coscienza. La memoria implicita ha un’enorme importanza nello
sviluppo psichico. Molte esperienze emotive, avvenute in un’epoca precoce della
nostra vita, sono rimaste impresse nella mente e continuano ad influenzare il
comportamento, al di là di ogni nostra possibile consapevolezza. Freud
sosteneva che l’amnesia infantile, cioè il fatto che non serbiamo alcun ricordo
dei nostri primi tre anni di vita, fosse dovuto alla rimozione: una sorta di
cancellazione attiva del ricordo infantile immagazzinato poi nell’inconscio.
Oggi si attribuisce l’amnesia della prima infanzia al fatto che i bambini non
hanno, a quell’età, un sistema rappresentativo capace di dare significato al
ricordo. In psicoanalisi possiamo distinguere l’inconscio rimosso descritto da Freud, dinamico e fondato sulla
rimozione, come espressione del modello pulsionale, dall’inconscio non rimosso, quale espressione di un modello relazionale
e contenitore di esperienze precoci e preverbali, che hanno partecipato
all’organizzazione di rappresentazioni affettive delle figure più significative
nello sviluppo del bambino, e di fantasie e difese rispetto a delusioni,
frustrazioni e traumi diversi che il bambino ha incontrato nel suo impatto con
la realtà.Queste fantasie e difese rispetto a traumi relazionali precoci,
depositate nella memoria implicita e pertanto non simboliche e non
verbalizzabili, non possono essere ricordate, ma sono in grado di condizionare
la vita affettiva, cognitiva e sessuale anche dell’adulto. Esse possono essere
conosciute nella relazione analitica attraverso alcune modalitàtransferali che
richiamano le esperienze più precoci, e attraverso la funzione simbolopoietica
del sogno, capace di trasformare e rendere verbalizzabili esperienze originarie
non pensabili (Mancia, 2004).
In base a questa distinzione è assolutamente pertinente
quanto scrive Duccio Demetrio (2005, pp. 19-22): “Il primo giorno in cui ci si
incamminò da soli, ondeggiando verso un oggetto attraente, incoraggiati dal
cenno di una mano adulta, nell’ombra premurosa di chi ci era accanto, ci teneva
per i polsi, fa parte dell’album personale degli oblii insondabili di ciascuno
di noi […].Non ci apparterrà mai il nitido momento personale, l’istante esatto
di quando ciò avvenne, pur essendone gli autori, fra l’altro festeggiati. Di
questo primo, primissimo rito di passaggio non resta ‘vera’ memoria alcuna […].
La memoria autobiografica dei primi passi è irrecuperabile; pretendere di
rievocarne con lucidità l’esperienza è un’innocente menzogna. E’ grazie alla
smemoratezza necessaria che il camminare diventerà una forma di conoscenza
perduta, perseguita quanto altre memorie. E’ profonda. Viene subito catturata
dall’inconscio che la custodirà restituendola non in forma di improvviso
ricordo, di comportamento […] quando chiederemo al camminare [o al correre,
aggiungo io] – oltre alle consuete mansioni – di estenuarci, quasi di
purificarci, oppure di darci piacere, di concederci libertà e fughe solitarie”.
Duccio Demetrio ha descritto tanto precisamente, quanto
poeticamente, la memoria proceduraledei
neuroscienziati, cioè la memoria per esperienze motorie e cognitive, quella
necessaria per gli sport o per suonare gli strumenti, ma anche la memoria affettiva ed emotiva, che è
presentenelle prime esperienze affettive che caratterizzano le relazioni del
bambino con l’ambiente in cui nasce e in particolare con la madre.
Entrambe queste memorie insieme al priming, cioè all’abilità di identificare un oggetto visivamente o
uditivamente come risultato di una precedente esposizione, anche se subliminale
rispetto al livello di coscienza,costituiscono la memoria implicita.
In momenti particolari dell’analisi, all’interno della
relazione analista - analizzando, attraverso i sogni di
quest’ultimo, è possibile per la coppia entrare in contatto con l’inconscio non
rimosso, correndo agilmente dietro alle immagini oniriche, che conservano
contemporaneamente l’imprevedibilità e la gratuità dell’infantile, ma anche una
più strutturata attitudine comunicativa. In modo analogo possiamo pensare che
il piacere che deriva dal correre non sia determinato dall’automatico drogarsi
con una sostanza endogena morfinosimile, dallo sballo del corridore, ma che
rimandi ad esperienze infantili piacevoli legate al mettersi in piedi, al
correre per abbracciare la mamma e il papà e ottenere la loro conferma,
all’inebriarsi orgogliosi per i complimenti ricevuti, al godere del risultato,
successivo a molte frustrazioni, ottenuto in seguito a fatica,al confronto con
il nuovo assoluto e all’aumento della capacità di controllare il mondo esterno.
Queste modalità di costruzione e di percezione del piacere non sono certamente
in contrasto con la produzione di endorfine, così come le origini psicologiche
delle emozioni e degli affetti non contrastano con la presenza e l’azione dei
neurotrasmettitori chimici, ma integrano ed arricchiscono il ruolo di questi
ormoni ipofisari, dando loro un ruolo non meccanico, non automatico, ma
conseguente a vissuti che rimandano ad esperienze antiche e profonde, dotate di
grande intensità affettiva.
“Per capire –
scrive Roberto Weber (2007, p. 6) – serve guardare, rileggere quel gesto antico
– probabilmente come l’uomo sulla terra – riempire i silenzi, dar significato
alle individuali fatiche, agli sguardi, alle falcate, alle accelerazioni, ai
momenti che precedono e che seguono le gare. Insomma, bisogna immaginare e
narrare”.
Scrive Marc
Augé((2008, p. 64): “E’ la nostra storia personale ad accudirci. Il mondo esterno
si impone concretamente nelle sue dimensioni fisiche. Ci resiste e ci obbliga a
uno sforzo di volontà, ma, allo stesso tempo, si offre a noi come spazio di
libertà intima e di iniziativa personale, come spazio poetico, nel pieno e nel primo senso del termine”. Ed è pieno di
poesia e di amore il ricordo di Martin Freud (1958) dell’incedere veloce, del
camminare spedito di suo padre Sigmund, tanto da paragonarlo al marciare dei
bersaglieri , che durante un suo viaggio in Italia aveva visto sfilare.
Per il filosofo runner
Mark Rowlands (2013), la conoscenza intrinseca al correre non è acquisita di
recente, bensì recuperata e scrive (pp. 8 e 10): “Nelle lunghe corse sento i
sussurri di un’infanzia che non potrò mai più riavere e di una casa a cui non
potrò mai più tornare. In questi sussurri, nei brusii e nei borbottii delle
lunghe corse, ci sono istanti in cui comprendo di nuovo quel che un tempo
sapevo. […] Correre è uno spazio in cui posso ricordare: non i pensieri altrui,
bensì ciò che molto tempo fa sapevo, ma sono stato costretto a dimenticare, via
via che crescevo e diventavo una persona. Sapevo, anche se non me ne rendevo
conto […]. Correre è un luogo del rimemorare. Ed è in questo luogo che
ritroviamo il significato della corsa”.
Alberto Antonio Semi (2014, p. 172) ci avverte che “Ci sono
delle acquisizioni che, una volta fatte, ci illudiamo siano eterne. Andare in
bicicletta, nuotare, camminare. […] Sono tutte acquisizioni motorie e, alcune fondamentali per la
vita stessa. Però sono acquisizioni e dunque possono essere rinegoziate o anche
perdute”.
La rinegoziazione e l’evitamento della perdita può avvenire
anche attraverso la riacquisizione di abilità motorie o sportive tout courte del piacere che nederiva,
spesso ritenute impensabili, perché non sufficientemente investite.
A PROPOSITO DELLA SCRITTURA ALLA FINE DELLA SEDUTA ANALITICA
“In
alcune parti di questo scritto è sorta la necessità di coinvolgermi ed espormi
in prima persona; di dover insomma usare me in alcuni territori, come unica
bussola dell’esplorazione. Strumento imperfetto, fragile. Non ne avevo altri.
Sua verità: modesta. Suo uso: paziente e senza fine” (Elvio Fachinelli).
“L’orrore di
quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!” “Si, invece”,
disse la Regina, “se non ne prenderai nota” (Lewis Carroll).
La
possibilità in alcuni momenti dell’analisi di accedere all’inconscio non
rimosso si materializza attraverso la capacità dell’analista di entrare in
risonanza con aspetti corporei intensamente vissuti durante la relazione con il
paziente, che sono spesso le prime e più antiche modalità di
trasformazione/esibizione delle tracce del linguaggio onirico. Tali
trasformazioni sono da lui emotivamente registrate attraverso una sorta di
incompiutezza elaborativa, cioè una serie di tentativi mentali di annotazione
frammentari e liberamente impuntuali, dovuti allo strumento imperfetto
costituito dall’analista stesso, di cui parla Fachinelli nell’incipit, che
rendono la scrittura successiva insoddisfacente, perché troppo parziale
rispetto alla densità eccedente delle vicende relazionali di cui è stato
co-attore e testimone al tempo stesso.
Leturbolente
vicissitudini emotive che hanno caratterizzato la relazione intima tra i due
inconsci subiscono le deformazioni formali di una qualche traduzione verbale
che, pur essendo altro rispetto all’indicibile del contatto emotivo, a sua
volta, diventa la prima pietra dell’architettura della
seduta psicoanalitica (o di alcune sue parti) scritta. Ne deriva che “La
scrittura istituisce uno spazio sospeso, ibrido di qualità opposte, potremmo
dire, della passione tranquilla o del concentrato vagare” (Nicolò, Tavazza,
Ricciotti, 2004, p. 246).
La
possibilità cioè di far coesistere la concentrazione e l’attenzione necessarie
alla costruzione di un elaborato che sia al tempo stesso informale, duttile,
che si modelli sull’instabilità e l’indefinitezza della trasmissione emotiva, e
chiaro, cioè in grado di strutturare i passaggi dalle emozioni vissute a quelle
dette e poi messe per iscritto, passaggi regolati da differenti regole formali
di espressione sia dal punto di vista dei contenuti che della sintassi, nella
sequenzae nella forma.
“L’annotazione scritta - scrive MaldeVigneri
(2002, p. 125) – è una specie di prodotto protoanalitico, una sorta di
potenziale punto di partenza che consustanzia linee di intuizione fra diverse
evidenze, realtà oggettiva e realtà psichica in tutte le sue molteplici
potenzialità. Un agglomerato tra realtà e arbitrarietà. Gli appunti sono
dettati dalla intuizione soggettiva e dalla pretesa di ancoraggio alle parole
del paziente”.
Scrivere
del paziente, ma scrivere di sé, ritrovando la capacità autodescrittiva dei
propri sentimenti in gioco fa si chel’autodescrizione diventi più dettagliata
attraverso il riposizionamento dell’oggetto nella sua alterità prospettica,
cioè recuperando una maggiore capacità di distanza descrittiva, imponendo al
materiale una prima, provvisoria cornice, al cui interno cominciano a
posizionarsi le teorie implicite ed esplicite che hanno favorito quella
selezione del materiale, ma contemporaneamente hanno determinato dolorosi
scarti, difficili rinunce, lutti di tutte le altre narrazioni possibili.
Già Freud (1909), a proposito dell’Uomo dei
topi, dichiarava il suo rammarico, in quanto la riproduzione fa a pezzi la
grande opera d’arte della natura psichica.
Roland Barthes e Pierre Marty (1980, p. 75)
scrivono che “Esiste un luogo nel campo dei linguaggi in cui è possibile
intravvedere rapporti più sottili tra orale e scritto, perché è il luogo in cui
il soggetto umano s’afferma con l’intensità di un dire che non si esaurisce in
semplici schemi storici e sociologici: questo luogo è la psicoanalisi”.
Thomas Ogden (2013, p. 630) afferma:“Io vedo
la psicoanalisi […] come un contenitore di profondo amore e rispetto per il
linguaggio, inteso come veicolo non solo per la semplice espressione di
pensieri e sentimenti ma, cosa più importante, come medium per la creazione di
pensieri e sentimenti”.
Inoltre, “se da un canto la scrittura è
organizzata dalla memoria, la subisce, subisce le sue stratificazioni, le sue
lacune, le sue impellenze e i suoi percorsi di contiguità; dall’altro non può
limitarsi a una funzione di report e, per la sua stessa
natura trasformativa e creativa, inevitabilmente, a sua volta la condiziona nel
metterla in forma. Nel realizzarsi, la scrittura non può non deformare la
memoria, forzarla, fino talvolta ad arrivare a generare la memoria stessa”
(Munari, 2014, p. 948).
“Che
differenza c’è, si chiede Agostino Racalbuto (2004), tra la parola erratica che
va dalla poltrona al lettino [e viceversa, aggiungo io] e la parola ferma,
circostanziata che caratterizza uno scritto? Lo scrivere presiede all’illusione
di fermare il tempo, dare una casa a ciò che è, per sua natura, erratico, di
stabilire dei punti che permettano alla forma della scrittura e al contenuto
che esprime di appartenersi per un po’ l’una
all’altro, come il corpo all’anima” (p. 288).
Si
tratta di andare alle origini somatopsichiche della fragile memoria dell’analizzando
e contemporaneamente recuperare la propria memoria implicita, per costruire
un’epifania anche sensoriale che sia il risultato diintensi scambi
tranfero-controtransferali e che metta in gioco tutta la vita emotiva delle due
persone che si incontrano nella stanza di analisi.
Freud
(1913, p. 259) sosteneva che per linguaggio “non si deve intendere la pura
espressione di pensieri in parole, ma anche il linguaggio gestuale e qualsiasi
altro tipo d’espressione di un’attività psichica, come ad esempio la scrittura”.Si
tratta di descrivere, e non solo sottintendere, una serie di traslochi e di
andirivieni, in quanto la riformulazione mentale a posteriori del materiale clinico
(Boccanegra, 1997) è strettamente connessa alla possibilità di ripensamento
attraverso la scrittura in modo che elementi sfuggiti al “conscio”, ma ancora
presenti, possano affiorare nella scrittura degli appunti, favorendo la
funzione autoriflessiva dell’analista che scrive e stimolando una nuova
comprensione del materiale clinico.
Quando a Giovanni, un giovane paziente che
avvertiva la sua esistenza corrosa da intensissimi dolori addominali e angosce
abbandoniche, è stato possibile esprimere in seduta il dolore, ma anche la
rabbia per l’impossibilità di una vita attiva, perché continuamente minata
dalla paura di non essere all’altezza di qualunque aspettativa, i dolori
addominali hanno cominciato ad avere una presenza meno ingombrante e nel giro
di pochi mesi non sono stati più un argomento centrale dei nostri incontri.
Successivamente, dopo essere stati per un certo periodo un aspetto collaterale
e poco significativo delle sue difficoltà, sono andati scomparendo dalla sua
pancia, trasformandosi in parole, in capacità di sognare. Il primo sintomo di
presentazione delle difficoltà aveva una concretezza organica, quasi a
dimostrazione di qualcosa di consistente e in qualche modo di riconoscibile e
condivisibile. E’ proprio sull’esigenza di riconoscibilità e di costituzione di
un terreno condiviso (“Mi creda, si tratta di dolori al limite della
sopportazione, come lei non ha mai provato!”) che mi sono eticamente
soffermato, non allontanandomi dal sintomo dolore organico, non andando subito
a cercare l’eventuale correlato mentale. In quel momento Giovanni poteva
esprimersi in quel modo (non era in grado di fare lavoro psicologico inconscio,
direbbe Ogden[2]) e uno spostamento di
piani avrebbe eluso il suo bisogno di condivisione e di contenimento[3].
E’ stato proprio il contenimento iniziale, il “credere” da parte mia al
sintomo, all’autenticità della sofferenza e alla sua localizzazione che ha poi
permesso il corpo a corpo con le sue credenze. I miei appunti a fine seduta
erano scarni e freddi come il diario clinico di un medico ospedaliero; il
dolore veniva descritto meccanicamente nella sua intensità, localizzazione,
propagazione; la narrativa era ripetitiva. Questa asetticità nella scrittura
degli appunti confliggeva, però, con l’intensa partecipazione emotiva alle
difficoltà anche fisiche di Giovanni. Proprio la contraddizione tra il vissuto emotivo
e la freddezza espositiva degli appunti, che rimandava anche alle mie
difficoltà di rappresentazione verbale e scritta,quando ero io stesso preda di
disturbi fisici che minavano la mia sicurezza esistenziale, ha innescato un
processo di valorizzazione di quanto in quel momento Giovanni era in grado di
rappresentare e ha portato alla mia successiva richiesta di fargli esplicitare
pensieri e teorie sui suoi dolori con domande di precisazione e di
individuazione, preparando una sorta di canovaccio da cui poter partire per
costruire la storia di quei dolori. L’originaria povertà degli appunti, vissuta
in antitesi alla ricchezza del mio vissuto partecipativoha facilitato la
costituzione di uno scenario che ha consentito a Giovannidi rappresentare con
modalità nuove il suo dolore, senza compiacenze intellettualistiche da un lato,
senza il timore di portare un prodotto non apprezzato dall’altro. Si è trattato
di organizzare, almeno inizialmente, nei miei pensieri prima, e nei mei appunti
poi, i sintomi sia sul piano simbolico, sia sul piano “concreto” per poter
costruire delle verità parziali sufficientemente digeribili per il paziente
rispetto alle sue angosce e corporee e mentali. Il paziente, sentendo che il
suo corpo veniva visto e immaginato, parlato al contempo, poteva provare a
diventare soggetto della propria storia, non più parassitato dai
sintomi.Scomparsi dalla scena i dolori addominali senza alcun clamore, senza
alcuna sottolineatura, se non una certa soddisfazione espressa dai suoi
genitori più che da lui, e dal paziente riportata in seduta, sono emerse e
venute in primo piano le sue difficoltà esistenziali e ha trovato spazio una
narrazione più riccamente strutturata, a cui ha fatto da contrappunto una mia
scrittura descrittiva e autodescrittiva più fluida, meno ripetitiva e amorfa.
Dice
lo scrittoreMurakamiHaruki (2007, p. 106): “Mentre scrivo, penso. […] Non è che
metta per iscritto le cose che ho pensato, le penso mentre le scrivo. Le mie
idee prendono forma nell’atto stesso di scrivere. E rivedendo quanto ho
scritto, approfondisco le mie riflessioni”.
I
procedimenti psichici messi in atto dall’analista che scrive sono diversi da
quelli dello scrittore. Deve evitare un’eccessiva saturazione teorica e insieme
un eccesso di immersione nella storia privata della relazione analitica per
favorire l’eventuale successiva condivisione attenta e universale dei colleghi
e dei lettori in generale.
Gli
analisti, a differenza degli scrittori, non possono viaggiare liberi senza
bagaglio a mano, non possono piegare a loro piacimento “la verità”,
abbellendola, colorandola, reinventandola,drammatizzandola, sdrammatizzandola,
ma devono tenere ferma la barra dell’onestà scientifica che contempla anche
ambiguità, ambivalenze, incomprensioni, sospensioni di ogni valutazione
critica.
“L’elaborato
clinico si colloca come genere letterario in un contesto ambiguo, tra il saggio
e la novella,tra l’apparente e il latente; si può definire come una produzione
espositiva di confine, cui partecipano vari stili di pensiero” (Giuffrida,
2004, p. 235).Lo stile diventa talvolta ondivago, passando dalla pura
narrazione delle storie e delle emozioni in campo, senza una predeterminazione,
una finalizzazione,alla costruzione di un linguaggio e quindi di un ordito che
dia spazio alle convinzioni scientifiche che organizzano con altre modalità il
materiale scritto, talvolta impuro, risentendo in contemporanea di entrambe le
esigenze.
“I
contenuti delle annotazioni rinviano un campo semantico ad un altro, contengono
intersecazioni di piani di coerenze significative e stabiliscono corrispondenze
tra diversi piani di realtà, tra le immagini descrittive nel loro contesto
realistico e quelle relative ad una traduzione arbitraria e soggettiva”
(Vigneri, 2002, p. 124).
Lo
scrivere dopo la seduta permette che il materiale clinico incompiuto possa
essere rivisitato attraverso una nuova cifra stilistica, dando origine a una
nuova rappresentazione scenica e a una nuova descrizione che, a loro volta,
possano rimandare al materiale clinico originario in una serie di continui
transiti trasformativi dalla parola all’ascolto, al pensiero, alla scrittura e
viceversa, favoriti proprio dall’incompiutezza che favorisce molteplici
possibilità di elaborazione interna.
Scrive
Meltzer (1992, p. 77): “Dapprima, forse, noi cerchiamo di vedere se una
formulazione ‘copre’ il materiale da trattare. Poi in uno stato di ‘quiete’,
possiamo valutare il suo grado di armonia con il materiale e le interpretazioni
precedenti. In seguito valutiamo le sue conseguenze rispetto alla comparsa di
nuovo materiale e all’evoluzione di un processo. La forza della nostra
convinzione non deriva tuttavia, a mio avviso, da questo sposarsi
dell’intuizione con il giudizio. Deriva piuttosto dalla componente estetica
dell’esperienza, dalla ‘bellezza’ con cui il materiale e la formulazione [e la
trascrizione aggiungo io] coabitano, fioriscono, danno frutti, come una cosa
indipendente da noi stessi”.
“La
materia comanda lo stile, afferma uno straordinario Freud: un’opera, uno
scritto analitico, non riesce a parlarci se non ha la capacità di conservare,
di trattenere nel suo svolgimento e nel suo stile le tracce che lo hanno reso
necessario; nel nostro caso la situazione analitica” (Chianese, 2004, p. 256).
E
Bion (1962) precisa che il sistema di annotazione deve rendere possibile
all’analista una registrazione che dopo un certo tempo gli risulti ancora
comprensibile e che possa essere comunicata ad altri senza perdere
sostanzialmente di significato.
Scrive Pontalis (1990, p. 86): “Lo scrivere
[…] ha inizio con le parole che si imprimono nella mente [dell’analista] e che
ritorneranno molto più tardi, quando le aveva già date per perdute; si deposita
alla rinfusa nelle poche note buttate giù dopo una seduta; si fa a volte,
arrivata la sera, sulle pagine di un quaderno che non verrà mostrato ad anima
viva come se nel far questo avessimo bisogno non tanto di mettere ordine nei
nostri pensieri quanto piuttosto di premunirci contro un rischio di invasione,
di riprenderci in mano, riconquistare un’identità messa in forse, cercare di
restaurare un’unità troppo minacciata”.
Tenere
separati i diversi momenti, non sovrapporli, ma provare a confrontarli, a
verificarne la vicinanza o la distanza, ci permette uno sguardo arricchito,
soprattutto perché ci permette di interrogarci sul senso dell’intera seduta,
sulle sequenze viste in successione all’interno di un contenitore stilistico
formalmente più definito, anche se non stabile come quello del testo che
diventerà pubblico. Non solo quindi le singole scene del film che ci hanno
colpito, non solo l’interazione delle singole scene del film e lo spettatore,
ma il tentativo di esprimere un ulteriore giudizio critico sull’incontro fra la
sensibilità dell’autore e quello dello spettatore all’interno di un’esperienza formalmente
compiuta, terminata (Boccanegra, 1997).
Quando mi venne alla
mente d’émblée, mentre provavo a trascrivere i momenti salienti della seduta,
apparentemente senza alcuno stimolo contingente, il viso sorridente di mia
madre che recitava ame bambino un antico proverbio, mentre cercavo di sedurla
per ottenere da lei qualcosa che mi era stato vietato: “Quando il diavolo ti
accarezza, vuole l’anima”, mi fu possibile avvertire e discernere il senso e il
fine inconscio dei movimenti seduttivi del paziente nei miei riguardi. Se da un
lato era evidente il tentativo di se–durmi, di portarmi lontano dalla difficile
realtà emotiva che stava vivendo, dai suoi pensieri clandestini, dall’altro mi
stava probabilmente chiedendo una minore rigidità, come quella a cui mia madre
nel ricordo aveva rinunciato sorridendomi, un aggiramento di un divieto che non
poteva essere tollerato dal suo sé bambino. Ed è stato proprio il ricordo
dell’antico proverbio e dell’antico sorriso che mi ha permesso di cominciare a
scrivere di questi momenti aurorali di separazione di differenti significati
della seduzione, quella perversamente clandestina che cercava di insinuarsi
nella mia mente e quella infantile, in un certo senso benigna, che mi chiedeva
una maggiore duttilità, una minore severità. La scrittura alla fine della
seduta ha permesso impensabili possibilità di connessione con il mondo del
paziente, fino a quel momento abitato ai miei occhi e ai miei sensi soltanto
dal segreto e dalla finzione relazionale.
Non prendo appunti durante la seduta[4]per
non perdermi neanche un attimo dell’intenso incontro con il mondo interno del
paziente per come risuona dentro di me, per quanto mi colpisce e mi attrae.
Scrivo a fine seduta suggestioni, come dire, pennellate impressionistiche,
prive di coerenza formale, quello che mi ha colpito di più del paziente, alcuni
miei ricordi, abbozzi interpretativi che non hanno ancora l’ambizione di un
pensiero compiuto. Si tratta insomma di una modalità di lavoro che si inscrive
tra il processo strutturato del pensare e il processo strutturato dello
scrivere, dove il quaderno di appunti diventa un contenitore non metaforico, un
bloc-notes molto reale, che si può tenere in mano e conservare (Pontalis,
1990).
“’Gesto minore’ dell’universo della scrittura, […] prescritto
da uno stimolo speciale e soggettivo, complesso e con una qualità difficile da
individuare, si iscrive sempre in un sistema interlocutorio, tra sé e
nell’ascolto dell’altro. E’ attivato da un assetto mentale di ricerca ed
esprime un ritrovamento o un riconoscimento nel pensiero di un suo appropriato
oggetto: per la profondità o la peculiarità di un contenuto, ed anche, nell’ascolto dell’altro,
per una sorta di forma ‘estetica o poetica’” (Vigneri, 2002, p. 115).
Avviene qualcosa di sovrapponibile alle sensazioni descritte
da MurakamiHaruki (2007, pp. 19 e 24) quando corre:“[quando corro] mi succede
anche ditornare con la mente agli avvenimenti passati, così, senza nessun nesso
logico. […] Posso affermare che non ho pensieri davvero coerenti. In quella
sospensione spazio-temporale, pensieri ogni volta diversi si insinuano
naturalmente nel mio cervello. […] Somigliano alle nuvole che vagano nel cielo.
Nuvole di grandezza e forma diverse che arrivano, e se ne vanno, semplici
ospiti di passaggio. […] Riesco a rendermi conto chiaramente delle cose
soltanto quando le percepisco attraverso la mia carne viva, attraverso una
materia che posso toccare con mano. Le trasformo in una forma visibile, e solo
allora me ne convinco”.
Le trasformazioni delle sensazioni di carne viva in una
forma visibile e condivisibile di cui parla Murakami sono molto simili alla
trasformazione in scrittura di quelle relazioni che hanno a che vedere con la
carne viva di due persone in profondo contatto emotivo durante l’analisi.
CONCLUSIONI
“Che cos’è lo stile? E’ fare di un atto difficile un gesto
grazioso, è dare un ritmo alla fatalità. E’ essere coraggioso senza disordine,
è dare alla necessità l’apparenza della libertà” (Roland Barthes).
Riprendendo le riflessioni di Freud circa la sublimazione
dell’aggressività insita nella pratica sportiva, aggiungo che non è raro che i
giovani atleti siano stati bambini turbolenti, o addirittura veri e propri
bambini iperattivi che hanno trasformato il vissuto di onnipotenza in un
progetto quale quello sportivo, certamente artificiale, ma socialmente
riconosciuto e grandemente valorizzato. L’attività sportiva, però, può
riprodurre o addirittura peggiorare relazioni oggettuali patologiche, oppure
favorire una qualche loro positiva elaborazione (Free, 2008).
Per mettere in scena un progetto di performance psicomotoria sportiva, l’atleta deve intrattenere una
relazione molto stretta con la presenza di un’assistenza tecnica e scientifica.
Da solo, oggi, non potrebbe ottenere risultati significativi. La relazione
dell’atleta con il suo corpo si inscrive, pertanto, nell’interazione con il suo
ambiente (tecnico, medico sportivo, fisioterapista, squadra) e facilita una
relazionalità micro- e macrosociale, che altrimenti rischierebbe di essere
irrealizzabile.
E’ proprio la necessaria socializzazione insita nella
pratica sportiva ad evitare che l’allenamento intensivo, con caratteristiche
ossessive di ritualità e ripetizione al fine di facilitare la fissazione
mnesica dei differenti gesti e sequenze di movimenti, favorisca il dispiegarsi
del vissuto di esistenza unicamente nella prova muscolare in atto e nelle
sensazioni spesso eccitanti che si provano per esempio durante la contrazione e
il rilasciamento dei muscoli (Carrier, 2002).
Soltanto la valorizzazione relazionale nell’incontro con
l’allenatore e la capacità di sognare insieme, la necessità di appartenenza al
gruppo con le relative possibili identificazioni multiple, il riconoscimento
del bisogno affettivo, della ricerca dello sguardo dell’altro, insito nella
pratica sportiva,possono favorire un aumento dell’auto-stima e della capacità
di costruire e/o rinforzare l’adattamento a situazioni nuove, impreviste o
imprevedibili, potenzialmente intensamente ansiogene (Schinaia, 2014), ed
essere antidoti contro la deriva di un’educazione al controllo motorio che
possa evocare un incitamento a investire le sensazioni legate al movimento in
termini compulsivi e a favorire il ritrovamento di un piacere infantile insito
primariamente nell’atto motorio e sportivo in sé e solo successivamente situato
nella realizzazione della performance.
La
riflessione e i movimenti emotivi che sostengono la scrittura di un primo testo
alla fine della seduta, pur entrando immediatamente nella costruzione del
materiale che poi attraverso successive elaborazioni viene (o può essere)
pubblicato, non sono stati molto oggetto della riflessione degli psicoanalisti,
che ha prevalentemente privilegiato la descrizionel’hic et nunc nella relazione o direttamente la scrittura di un
testo organizzato per la pubblicazione.
Dare
spazio e senso a questa fase preliminare della scrittura, agli appunti messi
giù alla fine della seduta, permette che le successive fasi elaborative dello scrivere
di psicoanalisi, inteso come il dare voce a una storia, non siano un’attività
solipsistica di rielaborazione di incontri fra due persone, ma si avvalgano
della presenza e del confronto con un terzo, di volta in volta lo stesso
psicoanalista quando rilegge quanto ha scritto, il lettore, il sistema teorico
al cui interno è iscritta la modalità osservativa e auto-osservativa che ha
generato il testo scritto.
Lo
scrivere deve dare il polso di come l’analista ha percepito, decodificato
trattato le comunicazioni del paziente in base al proprio personale modo di sentire
e non di come oggettivamente sono andate le cose. E’ lo stesso Freud a metterci
in guardia quando, nella stesura del caso di Dora (1901), ci avverte che la
messa per iscritto del caso clinico non è assolutamente fedele e che vi è un
dosaggio del soggettivo e dell’oggettivo.
Uno scrivere non difensivo, non seduttivo, seppure
all’interno di un contesto teorico, che ordini e renda fruibile e più o meno
condivisibile il testo per mezzo di un linguaggio che, separandosi dal privato
di chi scrive si rivolge agli altri assenti, al pubblico dei lettori, per
rendere partecipe la comunità scientificadi quanto è maturato in noi sul piano
teorico clinico, ma anche per rintracciare nel testo aspetti a noi ancora non
noti; scrivere per dialogare e, in tal modo, facilitare l’emergere di libere
associazioni su noi stessi.
Vi sono diversi punti in comune tra l’attività motoria
libera, il correre e lo scrivere. Boni (2015) evidenzia come scrivere e correre
una maratona abbiano in comune la stessa costanza e lo stesso tentativo di
inserire delle pause nella vita. Si tratta in ognuna di queste attività di
rendere fattualidisposizioni pulsionali, quali la motilità, ladisposizione
innata al movimento, chediventa nello sviluppo capacità di camminare e correre
a patto che vi sia un contenitore al cui interno si possa essere guardati,
apprezzati, confermati, e quindi educati via via fino all’attività sportiva. Ma
anche lo scrivere, da disposizione naturale all’autobiografia, al racconto di
sé, di sé con l’altro e di sé nel mondo abbisogna di un contenitore
“allenante”, dotato cioè tanto di capacità accoglienti, quanto di capacità
strutturanti che, di volta in volta possono essere il costrutto espositivo
scelto, una teoria scientifica, un lettore, capace di fare suo, e quindi di reinventare,
il testo, riproponendolo in una serie potenzialmente infinita di passaggi
trasformativi.
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[1]
Ovviamente per quanto radicate nel patrimonio genetico, le pulsioni motorie non
sono mai meccaniche, automatiche, ma interagiscono con gli aspetti psicologici,
relazionali, socio-culturali.
[2]
Ogden (2009) sostiene che le fobie rappresentano tipi di interruzione del
sognare. “Il paziente che manifesta questo tipo di sintomatologia è in grado di
sognare (di compiere lavoro psicologico inconscio) con la propria esperienza
vissuta solo fino a un certo punto. Il sintomo nevrotico segna il punto dove
l’individuo cessa di essere capace di fare lavoro psicologico inconscio e al
posto di questo lavoro viene generata una statica costruzione
psicologica/sintomo” (p. 51).
[3]Bion
(1987, p. 246) scrive: “Picasso traccia un disegno su una lastra di vetro
cosicché può essere visto da un lato e dall’altro. Vorrei suggerire qualcosa di
analogo: guardate da un lato, c’è un dolore psicosomatico. Giratelo, ora è
somapsicotico. E’ lo stesso, ma ciò che si vede dipende dal modo in cui lo si
guarda, da quale posizione, da quale vertice – o qualsiasi termine preferiate
usare”.
[4] Scrive Freud (1901, p. 307): “Il medico
[…]durante la seduta col malato non può prendere appunti, per non suscitare la
diffidenza del paziente e non disturbare il proprio intendimento del materiale
da raccogliere”.
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