COSIMO SCHINAIA
SOFFERENZA E PIACERE NELLA CORSA DI LUNGA LENA
“Ci vuole un gran fisico per correre dietro ai sogni”
(Stefano Benni)
INTRODUZIONE
Se pensiamo a come i futuri genitori avvertano
l’attività motoria spontanea del feto attraverso la parete uterina come
sinonimo di vita e di benessere, che va di pari passo con il giudizio di sanità
che viene dato dai medici e a come, al momento del parto, sia il pianto del
neonato, conseguente ai primi movimenti respiratori, a segnalare l’inizio della
vita sociale del lattante, ci rendiamo conto dell’enorme significato non solo
organico, ma simbolico e culturale che il movimento viene ad assumere. Il
piccolo animale, il bambino ha organicamente tanto bisogno di movimento in
termini assoluti e profondi, quanto del dormire e del mangiare. E’ necessario
che si agiti, che gridi, che respiri violentemente, che si lasci andare alle
attività esplosive del gioco. In fisiologia, la motilità si definisce come
l’insieme delle funzioni che assicurano la motricità. Freud nel Tre saggi sulla teoria sessuale dedica
una sezione all’attività muscolare che procura un piacere associato a un
soddisfacimento sessuale. Scrive (1905, p. 510): “Si sa che una grande attività
muscolare è per il bambino un bisogno, dal soddisfacimento del quale egli trae
un piacere
straordinario. […] Numerose persone raccontano di avere sperimentato
i primi sintomi di eccitazione nei loro genitali durante zuffe o lotte con i
loro compagni di gioco, situazione questa nella quale, oltre lo sforzo
muscolare generale, si fa sentire anche un completo contatto cutaneo con
l’avversario. […] Per molti individui il nesso infantile tra baruffe ed
eccitamento sessuale è una codeterminante per la direzione che in seguito
preferiranno nella loro pulsione sessuale”. In una nota aggiunta del 1909 Freud
confermerà “la natura sessuale del piacere di muoversi”, aggiungendo: “L’educazione
moderna si serve, com’è noto, largamente dello sport per deviare i giovani
dall’attività sessuale; sarebbe più giusto dire che essa sostituisce il
godimento sessuale con il piacere di muoversi e respinge l’attività sessuale a
una delle sue componenti autoerotiche” (p. 510). Per Freud quindi, la motricità
appare altrettanto essenziale nella ricerca del piacere e nel suo accomodamento
con l’esterno. Lo sport inoltreviene indicato come compromesso fra le intense
pulsioni sessuali e il necessario rapporto con la società circostante, la
sublimazione quindi di pulsioni basali in un’attività fortemente investita
dall’ambiente circostante. I primi lavori psicoanalitici su psicoanalisi e
sport risentono ovviamente della matrice freudiana e danno spazio soprattutto
agli aspetti difensivi insiti nello svolgimento dell’attività sportiva.Deutsch
(1926) ha evidenziato in un caso clinico gli aspetti compensatori di
un’incessante attività sportiva nei riguardi di sentimenti di inferiorità
determinati da impotenza sessuale. Fenichel (1939) ha esplorato gli aspetti
controfobici insiti nell’attività sportiva in relazione a stati di impotenza
che portano a un crescente bisogno di abilità, padronanza. Sachs (1984) più
recentemente ha descritto un caso in cui il correre con modalità compulsive ed
eccitatorie costituiva un disperato tentativo di opporsi alla sofferenza
psichica attraverso fantasie difensive di marca narcisistica, quali la totale
autosufficienza, l’invincibilità, l’immortalità eArnold M. Cooper (1981, p.
271) ha definito “la corsa come un metodo socialmente riconosciuto per la
gratificazione di potenzialmente pericolose tendenze narcisistiche e masochistiche”.Searles
(1960, pp. 11-12), sottolineando il valore del sentimento di colleganza
dell’uomo nei riguardi dell’ambiente non umano, si meraviglia che la
psicoanalisi non si sia sufficientemente occupata del “nostro amore per il
giardinaggio, del diletto che proviamo nel frequentare angoli amati della
natura; del piacere di praticare sport attivi […], che ci avvicinano
fisicamente alla natura”. Danielle Quinodoz (1997), invece, partendo dalle
teorizzazioni kleiniane, valorizza la capacità dell’attività sportiva di
consentire l’esperienza della “vertigine”, legata all’angoscia, in dosi
maneggevoli, trasformando temporaneamente l’angoscia in piacere, ed evidenzia
come l’equipaggiamento sportivo e il contesto possano configurarsi come un buon
contenitore per le angosce dell’Io. Argentieri (2014, p. 20) ricorda il gioco
del papà, che prende tra le mani il figlio piccolino e lo protende in alto, a
braccia tese, per cui per un istante il bambino viene lanciato in aria e poi
saldamente riafferrato, provando la piacevole ebbrezza del volo, ma anche un
po’ di paura e smarrimento. “È forse la prima occasione per sperimentare il
piacere della vertigine, che darà poi spunto alle infinite variazioni dei
divertimenti basati sul movimento del corpo nello spazio: dal girotondo alla
giostra, fino alle montagne russe”.
A PROPOSITO DEL CORRERE, DELLE ENDORFINE E DELLA
MEMORIA IMPLICITA
“Amo l’atletica perché è poesia. Se la notte
sogno, sogno di essere un maratoneta” (Eugenio Montale).
“Proprio nello sforzo enorme e coraggioso di vincere la
fatica riusciamo a provare almeno per un istante, la sensazione autentica di
vivere” (MurakamiHaruki).
“L’uomo che corre a piedi è sempre presente al proprio
corpo: quando corre, avverte il proprio peso e la propria età ed è più che mai
consapevole di se stesso e del tempo della sua vita” (Milan Kundera).
Le citazionievidenziano gli aspetti psicologi ed
esistenziali insiti nella corsa di lunga lena. L’anelito alla leggerezza nella
visione di Montale ci fa vedere come tracce del linguaggio onirico permettano
di entrare in risonanza con aspetti corporei intensamente vissuti.Murakami
descrive la sofferenza insita nella fatica, ma insieme il piacere legato alla
capacità di vincere la
sofferenza.Kundera mette in risalto la necessaria valutazione dei propri limiti
come antidoto antinarcisistico, ma anche il senso del loro consapevole
superamento, nei termini di valorizzazione delle proprie potenzialità
psicofisiche.
Oggi si assiste, soprattutto nell’investimento
sportivo di alto livello, a una visione tecnicistica del corpo tendente ad
analizzare il movimento come una cosa in sé, dipendente soltanto dalle leggi
biomeccaniche, senza tenere conto che l’evolversi della motricità, intesa come
filo conduttore dello sviluppo attorno al quale si forgia l’unità
somatopsichica della persona, e l’ordine motorio sono l’oggetto stesso della
pratica sportiva e non un corollario. Per esempio, a tutti è noto il cosiddettorunner's
high
(sballo del corridore), che va
inteso come una certa sensazione di euforia riscontrata da molti atleti durante
la pratica sportiva prolungata. Alcune recenti ricerche hanno provato la
dipendenza di questa sensazione euforica dal rilascio di endorfine da parte del
lobo anteriore dell'ipofisi durante l'esercizio fisico di una certa durata.
Essendo necessario uno sforzo prolungato, il runner's high è molto più frequente in atleti specializzati nelle
attività aerobiche, in particolare maratona (da qui il nome) o ciclismo. Voglio
però proporvi un’altra visione del piacere provato nel correre (o nel pedalare)
che non è alternativa alla teoria del rilascio ipofisario di ormoni
endorfinici, ma che la integra ed arricchisce. In virtù degli studi
neuroscientifici, è possibile distinguere tra memoria implicita o non dichiarativae memoria esplicita o dichiarativa. Molte esperienze emotive,
avvenute in un’epoca precoce della nostra vita, sono rimaste impresse nella
mente e continuano ad influenzare il comportamento, al di là di ogni nostra
possibile consapevolezza. Freud sosteneva che l’amnesia infantile, cioè il
fatto che non serbiamo alcun ricordo dei nostri primi tre anni di vita, fosse
dovuto alla rimozione. Oggi si attribuisce l’amnesia della prima infanzia al
fatto che i bambini non hanno, a quell’età, un sistema rappresentativo capace
di dare significato al ricordo. In psicoanalisi possiamo distinguere l’inconscio rimosso descritto da Freud,
dinamico e fondato sulla rimozione, come espressione del modello pulsionale,
dall’inconscio non rimosso, quale
espressione di un modello relazionale e contenitore di esperienze precoci e
preverbali, che hanno partecipato all’organizzazione di rappresentazioni
affettive delle figure più significative nello sviluppo del bambino, e di
fantasie e difese rispetto a delusioni, frustrazioni e traumi diversi che il
bambino ha incontrato nel suo impatto con la realtà.Queste fantasie e difese
rispetto a traumi relazionali precoci, depositate nella memoria implicita e
pertanto non simboliche e non verbalizzabili, non possono essere ricordate, ma
sono in grado di condizionare la vita affettiva, cognitiva e sessuale anche
dell’adulto. Esse possono essere conosciute nella relazione analitica
attraverso alcune modalitàtransferali che richiamano le esperienze più precoci,
e attraverso la funzione simbolopoietica del sogno, capace di trasformare e
rendere verbalizzabili esperienze originarie non pensabili (Mancia, 2004).In
base a questa distinzione è assolutamente pertinente quanto scrive Demetrio
(2005, pp. 19-22): “Il primo giorno in cui ci si incamminò da soli, ondeggiando
verso un oggetto attraente, incoraggiati dal cenno di una mano adulta,
nell’ombra premurosa di chi ci era accanto, ci teneva per i polsi, fa parte
dell’album personale degli oblii insondabili di ciascuno di noi […].Non ci
apparterrà mai il nitido momento personale, l’istante esatto di quando ciò
avvenne, pur essendone gli autori, fra l’altro festeggiati. Di questo primo,
primissimo rito di passaggio non resta ‘vera’ memoria alcuna […]. La memoria
autobiografica dei primi passi è irrecuperabile; pretendere di rievocarne con
lucidità l’esperienza è un’innocente menzogna. E’ grazie alla smemoratezza
necessaria che il camminare diventerà una forma di conoscenza perduta,
perseguita quanto altre memorie. E’ profonda. Viene subito catturata
dall’inconscio che la custodirà restituendola non in forma di improvviso
ricordo, di comportamento […] quando chiederemo al camminare [o al correre,
aggiungo io] – oltre alle consuete mansioni – di estenuarci, quasi di
purificarci, oppure di darci piacere, di concederci libertà e fughe
solitarie”.Demetrio ha descritto tanto precisamente, quanto poeticamente, la memoria proceduraledei neuroscienziati,
cioè la memoria per esperienze motorie e cognitive, quella necessaria per gli
sport o per suonare gli strumenti, ma anche la
memoria affettiva ed emotiva, che è presentenelle prime esperienze
affettive che caratterizzano le relazioni del bambino con l’ambiente in cui
nasce e in particolare con la madre.Così come in momenti particolari
dell’analisi, all’interno della relazione analista-analizzando, attraverso i
sogni di quest’ultimo è possibile entrare in contatto con l’inconscio non
rimosso, così possiamo pensare che il piacere che deriva dal correre e che si
intrecciaall’intenso impegno psicofisico, all’enorme dispendio energetico che
si ha durante una maratona, non sia determinato dall’automatico drogarsi con
una sostanza endogena morfinosimile, dallo sballo del corridore, ma che rimandi
ad esperienze piacevoli legate al mettersi in piedi, al correre per abbracciare
la mamma e il papà, all’inebriarsi per i complimenti ricevuti, al godere del
risultato, successivo a molte frustrazioni, ottenuto in seguito a fatica,al
confronto con il nuovo assoluto e all’aumento della capacità di controllare il
mondo esterno. Queste modalità di costruzione e di percezione diun piacere
commisto al dolore non sono certamente in contrasto con la produzione di
endorfine, così come le origini psicologiche delle emozioni e degli affetti non
contrastano con la presenza e l’azione dei neurotrasmettitori chimici, ma integrano
ed arricchiscono il ruolo di questi ormoni ipofisari, dando loro un ruolo non
meccanico, non automatico, ma conseguente a vissuti che rimandano ad esperienze
antiche e profonde, dotate di grande intensità affettiva.PerRowlands (2013), la
conoscenza intrinseca al correre non è acquisita di recente, bensì recuperata e
scrive (pp. 8 e 10): “Nelle lunghe corse sento i sussurri di un’infanzia che
non potrò mai più riavere e di una casa a cui non potrò mai più tornare. In
questi sussurri, nei brusii e nei borbottii delle lunghe corse, ci sono istanti
in cui comprendo di nuovo quel che un tempo sapevo. […] Correre è uno spazio in
cui posso ricordare: non i pensieri altrui, bensì ciò che molto tempo fa
sapevo, ma sono stato costretto a dimenticare, via via che crescevo e diventavo
una persona. Sapevo, anche se non me ne rendevo conto […]. Correre è un luogo
del rimemorare. Ed è in questo luogo che ritroviamo il significato della
corsa”.Semi (2014, p. 172) ci avverte che “Ci sono delle acquisizioni che, una volta
fatte, ci illudiamo siano eterne. Andare in bicicletta, nuotare, camminare. […]
Sono tutte acquisizioni motorie e,
alcune fondamentali per la vita stessa. Però sono acquisizioni e dunque possono
essere rinegoziate o anche perdute”.La rinegoziazione e l’evitamento della
perdita può avvenire anche attraverso la riacquisizione o l’acquisizione ex
novo di abilità motorie o sportive tout
courte del piacere che nederiva, spesso ritenute impensabili, perché non
sufficientemente investite.
CONCLUSIONI
Riprendendo le riflessioni di Freud circa la sublimazione
dell’aggressività insita nella pratica sportiva, aggiungo che non è raro che i
giovani atleti siano stati bambini turbolenti, o addirittura veri e propri
bambini iperattivi che hanno trasformato il vissuto di onnipotenza in un
progetto quale quello sportivo, certamente artificiale, ma socialmente
riconosciuto e grandemente valorizzato. L’attività sportiva, però, può
riprodurre o addirittura peggiorare relazioni oggettuali patologiche, oppure
favorire una qualche loro positiva elaborazione (Free, 2008).
Per mettere in scena un progetto di performance psicomotoria sportiva, l’atleta deve intrattenere una
relazione molto stretta con la presenza di un’assistenza tecnica e scientifica.
Da solo, oggi, non potrebbe ottenere risultati significativi. La relazione
dell’atleta con il suo corpo si inscrive, pertanto, nell’interazione con il suo
ambiente (tecnico, medico sportivo, fisioterapista, squadra) e facilita una
relazionalità micro- e macrosociale, che altrimenti rischierebbe di essere
irrealizzabile.E’ proprio la necessaria socializzazione insita nella pratica
sportiva ad evitare che l’allenamento intensivo, con caratteristiche ossessive
di ritualità e ripetizione al fine di facilitare la fissazione mnesica dei differenti
gesti e sequenze di movimenti, favorisca il dispiegarsi del vissuto di
esistenza unicamente nella prova muscolare in atto e nelle sensazioni spesso
eccitanti che si provano per esempio durante la contrazione e il rilasciamento
dei muscoli (Carrier, 2002). Soltanto la valorizzazione relazionale
nell’incontro con l’allenatore, la necessità del gruppo con le relative
possibili identificazioni multiple, il riconoscimento del bisogno affettivo
insito nella pratica sportiva possono favorire un aumento dell’auto-stima e
della capacità di costruire e/o rinforzare l’adattamento a situazioni nuove,
impreviste o imprevedibili, potenzialmente intensamente ansiogene (Schinaia,
2014), ed essere antidoti contro la deriva di un’educazione al controllo
motorio che possa evocare un incitamento a investire le sensazioni legate al
movimento in termini compulsivi e a favorire il ritrovamento di un piacere
infantile insito non nella performance,
ma nell’atto motorio e sportivo in sé.Si trattadi rendere fattuali disposizioni
pulsionali, quali la motilità, la disposizione innata al movimento, che diventa
nello sviluppo capacità di camminare e correre a patto che vi sia un
contenitore al cui interno si possa essere guardati, apprezzati e quindi
educati via via fino all’attività sportiva.
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