venerdì 5 febbraio 2016

Sofferenza e piacere nella corsa di lunga lena - Testo completo di C. Schinaia

all'attenzione di tutti i runners,
sono Cosimo Schinaia, dei Maratoneti Genovesi e per 30 anni sono stato primario psichiatra a Genova e ora sono psicoanalista didatta della Società Psicoanalitica Italiana. Come forse avrete già letto (perché è stato pubblicata anche sul sito genovadicorsa) ho scritto l'introduzione al libro Corrrere la vita di Gabriele Rosa, di cui sono amico. A giorni sarà inaugurata in Kenia una mostra sul correre con le foto di Uliano Lucas e una mia introduzione. Di recente ho tenuto una conferenza presso il CONI. 
Sull'ultimo numero della rivista di psicoanalisi Gli Argonauti è stato pubblicato un mio articolo che relativizza e arricchisce di termini psicologici il discorso sulle endorfine nella corsa di lunga lena. E' un lavoro con aspetti molto tecnici. Vi invio l'articolo completo e una forma ridotta, qualora trovassi l'articolo originale troppo specialistico. Un caro saluto. Cosimo


Cosimo SCHINAIA, psichiatra, già primario presso il Dipartimento di salute mentale di Genova e psicoanalista, membro ordinario con funzioni di training della Società Psicoanalitica Italiana e full member of International PsychoanalyticalAssociation.

dal movimento del corpo alla scrittura della vita:
riflessioni di uno psicoanalista maratoneta

“Ci vuole un gran fisico per correre dietro ai sogni” (Stefano Benni)

INTRODUZIONE

“La complessità e la pluralità della vita si sono ribellate a ogni ragione che pretenda di comprenderle e giudicarle ossia di dominarle, a ogni fondamento che presuma di costituire la loro essenza e additar loro un cammino” (Claudio Magris).

Tutto nella natura si muove e il movimento è stato da sempre valutato come indice di vitalità, di evoluzione, di progresso. Dalpneuma di Aristotele (Sull’anima, II, 1), il soffio che identificava l’anima e metafisicamente
l’anima con la vita, contenuto nello sperma e capace di indurre nel nascituro l’eidos, la forma, alPántarhêihōspotamós, tutto scorre come un fiumedi Eraclito, che sottolineava che v'è un logos sottostante a questo continuo mutamento, un'armonia profonda che governa in modo oscuro e inconoscibile la perenne dialettica fra contrari, che provoca il divenire perpetuo degli enti sensibili.
Ricordo che psiche per i Greci significa “soffio rinfrescante” e che tale significato si ritrova anche presso gli Ebrei, come testimonia questo versetto della Genesi: ”Il Dio eterno formò l’uomo dalla polvere della terra, egli soffiò nelle sue narici un respiro di vita e l’uomo divenne un essere vivente”. Molto più tardi Lamarck (Ricerche sull’organizzazione dei corpi viventi, 1802) concepì la vita come l’accumulo e l’interiorizzazione continui e progressivi dei movimenti dei fluidi nei solidi, sotto la forma iniziale di un tessuto cellulare.
Bateson (1972, p. 308) definisce il moto come il cambiamento più semplice e familiare.
D’altronde, se pensiamo a come i futuri genitori avvertano l’attività motoria spontanea del feto attraverso la parete uterina come sinonimo di vita e di benessere, che va di pari passo con il giudizio di sanità che viene dato dai medici e a come, al momento del parto, sia il pianto del neonato, conseguente ai primi movimenti respiratori, a segnalare l’inizio della vita sociale del lattante, ci rendiamo conto dell’enorme significato non solo organico, ma simbolico e culturale che il movimento viene ad assumere. Il piccolo animale, il bambino ha organicamente tanto bisogno di movimento in termini assoluti e profondi, quanto del dormire e del mangiare. E’ necessario che si agiti, che gridi, che respiri violentemente, che si lasci andare alle attività esplosive del gioco. Essenzialmente libera e priva di obiettivi specifici, l’attività motoria spontanea non è sostituibile con un corso di ginnastica o con l’allenamento a uno sport, perché è la sola che precisamente riesca a mettere in gioco tutti i muscoli del corpo in un utilissimo disordine. Possiamo affermare che il movimento è l’unico supporto che possa essere validamente utilizzato dall’uomo dalla vita intrauterina fino alla vecchiaia.
In fisiologia, la motilità si definisce come l’insieme delle funzioni che assicurano la motricità. Freud nel Tre saggi sulla teoria sessuale dedica una sezione all’attività muscolare che procura un piacere associato a un soddisfacimento sessuale. Scrive (1905, p. 510): “Si sa che una grande attività muscolare è per il bambino un bisogno, dal soddisfacimento del quale egli trae un piacere straordinario. […] Numerose persone raccontano di avere sperimentato i primi sintomi di eccitazione nei loro genitali durante zuffe o lotte con i loro compagni di gioco, situazione questa nella quale, oltre lo sforzo muscolare generale, si fa sentire anche un completo contatto cutaneo con l’avversario. […] Per molti individui il nesso infantile tra baruffe ed eccitamento sessuale è una codeterminante per la direzione che in seguito preferiranno nella loro pulsione sessuale”. In una nota aggiunta del 1909 Freud confermerà “la natura sessuale del piacere di muoversi”, aggiungendo: “L’educazione moderna si serve, com’è noto, largamente dello sport per deviare i giovani dall’attività sessuale; sarebbe più giusto dire che essa sostituisce il godimento sessuale con il piacere di muoversi e respinge l’attività sessuale a una delle sue componenti autoerotiche” (p. 510). Per Freud quindi, la motricità appare altrettanto essenziale nella ricerca del piacere e nel suo accomodamento con l’esterno. Lo sport inoltreviene indicato come compromesso fra le intense pulsioni sessuali e il necessario rapporto con la società circostante, la sublimazione quindi di pulsioni basali in un’attività fortemente investita dall’ambiente circostante. I primi lavori psicoanalitici su psicoanalisi e sport risentono ovviamente della matrice freudiana e danno spazio soprattutto agli aspetti difensivi insiti nello svolgimento dell’attività sportiva.
HeleneDeutsch (1926) ha evidenziato in un caso clinico gli aspetti compensatori di un’incessante attività sportiva nei riguardi di sentimenti di inferiorità determinati da impotenza sessuale.
Otto Fenichel (1939) ha esplorato gli aspetti controfobici insiti nell’attività sportiva in relazione a stati di impotenza che portano a un crescente bisogno di abilità, padronanza.
M. H.Sachs (1984) più recentemente ha descritto un caso in cui il correre con modalità compulsive ed eccitatorie costituiva un disperato tentativo di opporsi alla sofferenza psichica attraverso fantasie difensive di marca narcisistica, quali la totale autosufficienza, l’invincibilità, l’immortalità eArnold M. Cooper (1981, p. 271) ha definito “la corsa come un metodo socialmente riconosciuto per la gratificazione di potenzialmente pericolose tendenze narcisistiche e masochistiche”.
   Harold F. Searles (1960, pp. 11-12), sottolineando il valore del sentimento di colleganza dell’uomo nei riguardi dell’ambiente non umano, si meraviglia che la psicoanalisi non si sia sufficientemente occupata del “nostro amore per il giardinaggio, del diletto che proviamo nel frequentare angoli amati della natura; del piacere di praticare sport attivi […], che ci avvicinano fisicamente alla natura”.
Danielle Quinodoz (1997), invece, partendo dalle teorizzazioni kleiniane, valorizza la capacità dell’attività sportiva di consentire l’esperienza della “vertigine”, legata all’angoscia, in dosi maneggevoli, trasformando temporaneamente l’angoscia in piacere, ed evidenzia come l’equipaggiamento sportivo e il contesto possano configurarsi come un buon contenitore per le angosce dell’Io.
Simona Argentieri (2014) ricorda il gioco del papà, che prende tra le mani il figlio piccolino e lo protende in alto, a braccia tese, per cui per un istante il bambino viene lanciato in aria e poi saldamente riafferrato, provando la piacevole ebbrezza del volo, ma anche un po’ di paura e smarrimento. “È forse la prima occasione per sperimentare il piacere della vertigine, che darà poi spunto alle infinite variazioni dei divertimenti basati sul movimento del corpo nello spazio: dal girotondo alla giostra, fino alle montagne russe” (Argentieri, 2014, p. 20).

A PROPOSITO DEL MOVIMENTO NELLE PRIME FASI DELLA VITA

“Non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato, ma a causa dell'impetuosità e della velocità del mutamento essa si disperde e si raccoglie, viene e va” (Eraclito).

“Il corpo vivente non conserva neanche per un istante lo stesso stato e la stessa composizione: più è attiva la sua vita, più sono continui i suoi scambi e le sue metamorfosi” (Georges BaronCuvier).

L’intensità e l’espressività nella realizzazione delle attività motorie sono intimamente connesse con la maturazione dell’organismo, ma anche determinate, per quanto non univocamente,dalle abitudini culturali e ambientali.Guardando agli aspetti socio-culturali, nella stessa cultura occidentale sono notevoli le differenze circa la possibilità di favorire,più o meno, la libertà dei movimenti nell’infante e nel bambino.In alcune aree di cultura occidentale (meridionali) è ancora praticata la fasciatura stretta del neonato, in base all’errata convinzione che tale pratica favorisca la possibilità per le gambe di crescere dritte e sappiamo che raddrizzare quanto viene vissuto come storto ha a che fare con molta della pedagogia normalizzatrice. In alcuni gruppi di cultura non occidentale, per esempio nella cultura indiana,è ancora in uso il cradleboard, una sorta di portabebè che tiene l’infante rigidamente bloccato. Nell’isola di Bali viene scoraggiato o addirittura impedito ai bambini di gattonare, perché il contatto diretto con il terreno viene considerato una caratteristica strisciante tipica dei rettili.
Vi sono nelle varie modalità di allevamento dei bambini restrizioni variabili della mobilità, della vicinanza, del contatto e della concomitante pressione e della stimolazione che viene probabilmente esercitata sugli organi escretori e genitali (per esempio quando il bambino è adeso al dorso della madre).In alcune zone dell’India sono i bambini più grandi che portano i più piccoli, che stanno a cavalcioni su un loro fianco e il bambino piccolo per tenersi, fa pressione con i talloni contro la regione anale e quella genitale del bambino grande. In Tailandia la motilità libera è disapprovata, perché considerata disdicevole. Appena il bambino comincia a correre, la mamma lo raccoglie e se lo mette dietro un fianco. Ciò può essere in armonia con il prevalente orientamento buddista del Paese, che disapprova e scoraggia la libera espressione delle emozioni.In alcuni gruppi culturali l’espressione motoria è molto più libera e vivace nell’età adulta. Anche la gestualità mostra caratteristiche e differenze notevoli. Si pensi ai meridionali, alla mobilità delle loro espressioni visive, alle smorfie, alla comunicativa gestualità, all’uso delle mani, al movimento del capo per assentire o dissentire. Insomma, le differenze culturali influenzano la forma e il vissuto delle posture e dei movimenti, che vengono indirizzati verso alcune direzioni piuttosto che verso altre, soprattutto nella relazione madre-bambino. Un bambino abituato a essere tenuto in fasce molto probabilmente avvertiràuna sensazione di scomodità nel momento in cuiverrà tenuto in braccio con le modalità prevalenti in un altro gruppo sociale. Per esempio un bambino tenuto abitualmente dritto in braccio e con il capo sostenuto dalla mano dell’adulto, come avviene ad Haiti, potrebbe piangere se fosse tenuto dall’adulto in posizione orizzontale con gli avambracci estesi e separati, come avviene da noi, o se stesse a cavalcioni sul fianco dell’adulto, come avviene in molti paesi orientali(Mittelmann, 1954).
I movimenti durante i primi due anni di vita possono essere raggruppati sotto cinque titoli (Mittelmann, 1954):
1) i cosiddetti movimenti randomdei neonati;
2) le configurazioni affettomotorie, che sono i patternsmotori che accompagnano reazioni emozionali, quali gioia, paura e così via;
3) le configurazioni ritmiche vigorose e ben organizzate, spesso di significato autoerotico – per esempio, dondolare e rimbalzare;
4) l’attività motoria più raffinata, inclusa la postura, la locomozione e, in particolare, la manipolazione;
5) i fenomeni motori che sono elementi indispensabili per la funzione di un altro organo o per fare un altro sforzo, come per es. i patterns motori che sottostanno alle attività orali, come succhiare e mangiare.

Dai dieci mesi ai quattro-cinque anni troviamo due tipi di manifestazioni motorie che possiamo considerare una prova dell’esistenza di pulsioni motorie[1],che hanno ovviamente variazioni individuali. Il bambino si impegna consistentemente in movimenti che non hanno altro scopo che l’esperienza del movimento: gattonare, correre, rimbalzare, saltare e girare su se stesso. Molte di queste attività sono ritmiche o circolari.
   Inoltre, le attività motorie di quest’età, anche se dirette verso un obiettivo, per esempio manipolare oggetti, sono continue ed eseguite con segni di coazione ripetitiva. Se queste attività vengono bloccate, il bambino resta agitato e nervoso. Nei gruppi di bambini più grandi, la prova evidente di una pulsione motoria è rappresentata dalle attività sportive, in cui l’attività motoria in sé rappresenta la motivazione più importante.
   La curva dell’esperienza motoria è più sostenuta e diffusa nella motilità del bambino che non, per esempio nelle attività genitali dell’adulto, nonostante in quest’ultima vi sia una chiara sequenza di eccitazione, attività, soddisfacimento e rilassamento.
   Il secondo e terzo anno di vita costituiscono il periodo di massimo rapido sviluppo dell’abilità motoria e la motilità costituisce uno degli elementi centrali per esercitare alcune funzioni quali la padronanza, l’integrazione, il test di realtà e il controllo degli impulsi. Certamente la pulsione motoria è presente in tutte le età della vita, ma assume un valore dominante all’inizio del secondo anno e resta dominante per alcuni anni. Il periodo di massimo rapido sviluppo delle funzioni motorie (postura, locomozione, manipolazione) coincide con la dominanza dell’impulso motorio. In questo periodo, la motilità è uno dei mezzi principali per effettuare i test di realtà e l’integrazione. Il periodo è inoltre caratterizzato psicologicamente dall’identificazione di tipo imitativo e dall’incremento della valutazione di sé (autoaffermazione, autostima), dell’indipendenza, dell’aggressività, della relativa paura della punizione, della facilità con cui viene avvertita come una ferita la colpa o il rifiuto. Il tentativo di nuove performances motorie è spesso accompagnato da un vissuto di frustrazione, perplessità, particolarmente in relazione alla locomozione, da paura di una caduta incontrollata. Quando poi le cose cominciano a funzionare, ovviamente il vissuto è di gioia e la tendenza è quella della ripetizione. Il sostegno dell’adulto all’ansia del bambino e la sua partecipazione alla gioia per gli ostacoli superati, conduce a una positiva reazione circolare interpersonale.
   D’altro canto, è proprio intorno all’attività motoria del bambino che nascono i primi scontri con l’ambiente circostante, che conducono alle prime intense reazioni nevrotiche. Ne deriva che è la relazione con i propri oggetti, e non solo l’attività motoria in sé, a indirizzare fortemente il processo di test di realtà. In situazioni acute di stress o in condizioni patologiche ci può essere un revival delle precedenti forme motorie, per esempio, il dondolare ritmico. Una sostenuta restrizione della motilità durante la fase motoria dello sviluppo del bambino può condurre a severi disturbi ansiosi e, più tardi, a un’iperattività compensatoria. Sappiamo che l’angoscia determinata per esempio dal pericolo può portare a un aumento della motilità, come il correre per sicurezza, o, all’opposto l’inattivazione fino alla mancanza della funzione motoria. La depressione infantile determina ipotonia e flessibilità cerea per es. negli schizofrenici. In situazioni di notevole conflitto, il comportamento motorio può evidenziare fenomeni di formazioni di compromesso, sostituzione, formazione reattiva, e l’alternanza di fare e non fare. Un buon uso della mobilità è utile per la conciliazione successiva a un’aggressione o a padroneggiare l’angoscia. In tutti gli individui, malati o sani, la motilità gioca un significativo ruolo psicodinamico, come si rileva dal comportamento motorio osservato, nella storia passata e nei sogni.

A PROPOSITO DEL CORRERE, DELLE ENDORFINE E DELLA MEMORIA IMPLICITA
“Amo l’atletica perché è poesia. Se la notte sogno, sogno di essere un maratoneta” (Eugenio Montale).
“Proprio nello sforzo enorme e coraggioso di vincere la fatica riusciamo a provare almeno per un istante, la sensazione autentica di vivere” (MurakamiHaruki).

“L’uomo che corre a piedi è sempre presente al proprio corpo: quando corre, avverte il proprio peso e la propria età ed è più che mai consapevole di se stesso e del tempo della sua vita” (Milan Kundera).

Oggi si assiste, soprattutto nell’investimento sportivo di alto livello, a una visione tecnicistica del corpo tendente ad analizzare il movimento come una cosa in sé, dipendente soltanto dalle leggi biomeccaniche, senza tenere conto che l’evolversi della motricità, intesa come filo conduttore dello sviluppo attorno al quale si forgia l’unità somatopsichica della persona, e l’ordine motorio sono l’oggetto stesso della pratica sportiva e non un corollario. Per esempio, a tutti è noto il cosiddettorunner's high (sballo del corridore), che va inteso come una certa sensazione di euforia riscontrata da molti atleti durante la pratica sportiva prolungata. Alcune recenti ricerche hanno provato la dipendenza di questa sensazione euforica dal rilascio di endorfine da parte del lobo anteriore dell'ipofisi durante l'esercizio fisico di una certa durata. Essendo necessario uno sforzo prolungato, il runner's high è molto più frequente in atleti specializzati nelle attività aerobiche, in particolare maratona (da qui il nome) o ciclismo. Voglio però proporvi un’altra visione del piacere provato nel correre (o nel pedalare) che non è alternativa alla teoria del rilascio ipofisario di ormoni endorfinici, ma che la integra ed arricchisce.
In virtù degli studi neuroscientifici, è possibile distinguere tra memoria implicita o non dichiarativae memoria esplicita o dichiarativa. La memoria esplicita è quella per cui noi possiamo richiamare in modo attivo alla mente uno specifico avvenimento del passato. La memoria implicita, invece, conserva esperienze che non è possibile richiamare attivamente alla coscienza. La memoria implicita ha un’enorme importanza nello sviluppo psichico. Molte esperienze emotive, avvenute in un’epoca precoce della nostra vita, sono rimaste impresse nella mente e continuano ad influenzare il comportamento, al di là di ogni nostra possibile consapevolezza. Freud sosteneva che l’amnesia infantile, cioè il fatto che non serbiamo alcun ricordo dei nostri primi tre anni di vita, fosse dovuto alla rimozione: una sorta di cancellazione attiva del ricordo infantile immagazzinato poi nell’inconscio. Oggi si attribuisce l’amnesia della prima infanzia al fatto che i bambini non hanno, a quell’età, un sistema rappresentativo capace di dare significato al ricordo. In psicoanalisi possiamo distinguere l’inconscio rimosso descritto da Freud, dinamico e fondato sulla rimozione, come espressione del modello pulsionale, dall’inconscio non rimosso, quale espressione di un modello relazionale e contenitore di esperienze precoci e preverbali, che hanno partecipato all’organizzazione di rappresentazioni affettive delle figure più significative nello sviluppo del bambino, e di fantasie e difese rispetto a delusioni, frustrazioni e traumi diversi che il bambino ha incontrato nel suo impatto con la realtà.Queste fantasie e difese rispetto a traumi relazionali precoci, depositate nella memoria implicita e pertanto non simboliche e non verbalizzabili, non possono essere ricordate, ma sono in grado di condizionare la vita affettiva, cognitiva e sessuale anche dell’adulto. Esse possono essere conosciute nella relazione analitica attraverso alcune modalitàtransferali che richiamano le esperienze più precoci, e attraverso la funzione simbolopoietica del sogno, capace di trasformare e rendere verbalizzabili esperienze originarie non pensabili (Mancia, 2004).
In base a questa distinzione è assolutamente pertinente quanto scrive Duccio Demetrio (2005, pp. 19-22): “Il primo giorno in cui ci si incamminò da soli, ondeggiando verso un oggetto attraente, incoraggiati dal cenno di una mano adulta, nell’ombra premurosa di chi ci era accanto, ci teneva per i polsi, fa parte dell’album personale degli oblii insondabili di ciascuno di noi […].Non ci apparterrà mai il nitido momento personale, l’istante esatto di quando ciò avvenne, pur essendone gli autori, fra l’altro festeggiati. Di questo primo, primissimo rito di passaggio non resta ‘vera’ memoria alcuna […]. La memoria autobiografica dei primi passi è irrecuperabile; pretendere di rievocarne con lucidità l’esperienza è un’innocente menzogna. E’ grazie alla smemoratezza necessaria che il camminare diventerà una forma di conoscenza perduta, perseguita quanto altre memorie. E’ profonda. Viene subito catturata dall’inconscio che la custodirà restituendola non in forma di improvviso ricordo, di comportamento […] quando chiederemo al camminare [o al correre, aggiungo io] – oltre alle consuete mansioni – di estenuarci, quasi di purificarci, oppure di darci piacere, di concederci libertà e fughe solitarie”.
Duccio Demetrio ha descritto tanto precisamente, quanto poeticamente, la memoria proceduraledei neuroscienziati, cioè la memoria per esperienze motorie e cognitive, quella necessaria per gli sport o per suonare gli strumenti, ma anche la memoria affettiva ed emotiva, che è presentenelle prime esperienze affettive che caratterizzano le relazioni del bambino con l’ambiente in cui nasce e in particolare con la madre.
Entrambe queste memorie insieme al priming, cioè all’abilità di identificare un oggetto visivamente o uditivamente come risultato di una precedente esposizione, anche se subliminale rispetto al livello di coscienza,costituiscono la memoria implicita.
In momenti particolari dell’analisi, all’interno della relazione analista - analizzando, attraverso i sogni di quest’ultimo, è possibile per la coppia entrare in contatto con l’inconscio non rimosso, correndo agilmente dietro alle immagini oniriche, che conservano contemporaneamente l’imprevedibilità e la gratuità dell’infantile, ma anche una più strutturata attitudine comunicativa. In modo analogo possiamo pensare che il piacere che deriva dal correre non sia determinato dall’automatico drogarsi con una sostanza endogena morfinosimile, dallo sballo del corridore, ma che rimandi ad esperienze infantili piacevoli legate al mettersi in piedi, al correre per abbracciare la mamma e il papà e ottenere la loro conferma, all’inebriarsi orgogliosi per i complimenti ricevuti, al godere del risultato, successivo a molte frustrazioni, ottenuto in seguito a fatica,al confronto con il nuovo assoluto e all’aumento della capacità di controllare il mondo esterno. Queste modalità di costruzione e di percezione del piacere non sono certamente in contrasto con la produzione di endorfine, così come le origini psicologiche delle emozioni e degli affetti non contrastano con la presenza e l’azione dei neurotrasmettitori chimici, ma integrano ed arricchiscono il ruolo di questi ormoni ipofisari, dando loro un ruolo non meccanico, non automatico, ma conseguente a vissuti che rimandano ad esperienze antiche e profonde, dotate di grande intensità affettiva.
   “Per capire – scrive Roberto Weber (2007, p. 6) – serve guardare, rileggere quel gesto antico – probabilmente come l’uomo sulla terra – riempire i silenzi, dar significato alle individuali fatiche, agli sguardi, alle falcate, alle accelerazioni, ai momenti che precedono e che seguono le gare. Insomma, bisogna immaginare e narrare”.
   Scrive Marc Augé((2008, p. 64): “E’ la nostra storia personale ad accudirci. Il mondo esterno si impone concretamente nelle sue dimensioni fisiche. Ci resiste e ci obbliga a uno sforzo di volontà, ma, allo stesso tempo, si offre a noi come spazio di libertà intima e di iniziativa personale, come spazio poetico, nel pieno e nel primo senso del termine”. Ed è pieno di poesia e di amore il ricordo di Martin Freud (1958) dell’incedere veloce, del camminare spedito di suo padre Sigmund, tanto da paragonarlo al marciare dei bersaglieri , che durante un suo viaggio in Italia aveva visto sfilare.
Per il filosofo runner Mark Rowlands (2013), la conoscenza intrinseca al correre non è acquisita di recente, bensì recuperata e scrive (pp. 8 e 10): “Nelle lunghe corse sento i sussurri di un’infanzia che non potrò mai più riavere e di una casa a cui non potrò mai più tornare. In questi sussurri, nei brusii e nei borbottii delle lunghe corse, ci sono istanti in cui comprendo di nuovo quel che un tempo sapevo. […] Correre è uno spazio in cui posso ricordare: non i pensieri altrui, bensì ciò che molto tempo fa sapevo, ma sono stato costretto a dimenticare, via via che crescevo e diventavo una persona. Sapevo, anche se non me ne rendevo conto […]. Correre è un luogo del rimemorare. Ed è in questo luogo che ritroviamo il significato della corsa”.
Alberto Antonio Semi (2014, p. 172) ci avverte che “Ci sono delle acquisizioni che, una volta fatte, ci illudiamo siano eterne. Andare in bicicletta, nuotare, camminare. […] Sono tutte acquisizioni motorie e, alcune fondamentali per la vita stessa. Però sono acquisizioni e dunque possono essere rinegoziate o anche perdute”.
La rinegoziazione e l’evitamento della perdita può avvenire anche attraverso la riacquisizione di abilità motorie o sportive tout courte del piacere che nederiva, spesso ritenute impensabili, perché non sufficientemente investite.


A PROPOSITO DELLA SCRITTURA ALLA FINE DELLA SEDUTA ANALITICA

“In alcune parti di questo scritto è sorta la necessità di coinvolgermi ed espormi in prima persona; di dover insomma usare me in alcuni territori, come unica bussola dell’esplorazione. Strumento imperfetto, fragile. Non ne avevo altri. Sua verità: modesta. Suo uso: paziente e senza fine” (Elvio Fachinelli).

“L’orrore di quel momento”, continuò il Re, “non lo dimenticherò mai, mai!” “Si, invece”, disse la Regina, “se non ne prenderai nota” (Lewis Carroll).

La possibilità in alcuni momenti dell’analisi di accedere all’inconscio non rimosso si materializza attraverso la capacità dell’analista di entrare in risonanza con aspetti corporei intensamente vissuti durante la relazione con il paziente, che sono spesso le prime e più antiche modalità di trasformazione/esibizione delle tracce del linguaggio onirico. Tali trasformazioni sono da lui emotivamente registrate attraverso una sorta di incompiutezza elaborativa, cioè una serie di tentativi mentali di annotazione frammentari e liberamente impuntuali, dovuti allo strumento imperfetto costituito dall’analista stesso, di cui parla Fachinelli nell’incipit, che rendono la scrittura successiva insoddisfacente, perché troppo parziale rispetto alla densità eccedente delle vicende relazionali di cui è stato co-attore e testimone al tempo stesso.
Leturbolente vicissitudini emotive che hanno caratterizzato la relazione intima tra i due inconsci subiscono le deformazioni formali di una qualche traduzione verbale che, pur essendo altro rispetto all’indicibile del contatto emotivo, a sua volta, diventa la prima pietra dell’architettura della seduta psicoanalitica (o di alcune sue parti) scritta. Ne deriva che “La scrittura istituisce uno spazio sospeso, ibrido di qualità opposte, potremmo dire, della passione tranquilla o del concentrato vagare” (Nicolò, Tavazza, Ricciotti, 2004, p. 246).
La possibilità cioè di far coesistere la concentrazione e l’attenzione necessarie alla costruzione di un elaborato che sia al tempo stesso informale, duttile, che si modelli sull’instabilità e l’indefinitezza della trasmissione emotiva, e chiaro, cioè in grado di strutturare i passaggi dalle emozioni vissute a quelle dette e poi messe per iscritto, passaggi regolati da differenti regole formali di espressione sia dal punto di vista dei contenuti che della sintassi, nella sequenzae nella forma.
   “L’annotazione scritta - scrive MaldeVigneri (2002, p. 125) – è una specie di prodotto protoanalitico, una sorta di potenziale punto di partenza che consustanzia linee di intuizione fra diverse evidenze, realtà oggettiva e realtà psichica in tutte le sue molteplici potenzialità. Un agglomerato tra realtà e arbitrarietà. Gli appunti sono dettati dalla intuizione soggettiva e dalla pretesa di ancoraggio alle parole del paziente”.
Scrivere del paziente, ma scrivere di sé, ritrovando la capacità autodescrittiva dei propri sentimenti in gioco fa si chel’autodescrizione diventi più dettagliata attraverso il riposizionamento dell’oggetto nella sua alterità prospettica, cioè recuperando una maggiore capacità di distanza descrittiva, imponendo al materiale una prima, provvisoria cornice, al cui interno cominciano a posizionarsi le teorie implicite ed esplicite che hanno favorito quella selezione del materiale, ma contemporaneamente hanno determinato dolorosi scarti, difficili rinunce, lutti di tutte le altre narrazioni possibili.
   Già Freud (1909), a proposito dell’Uomo dei topi, dichiarava il suo rammarico, in quanto la riproduzione fa a pezzi la grande opera d’arte della natura psichica.

   Roland Barthes e Pierre Marty (1980, p. 75) scrivono che “Esiste un luogo nel campo dei linguaggi in cui è possibile intravvedere rapporti più sottili tra orale e scritto, perché è il luogo in cui il soggetto umano s’afferma con l’intensità di un dire che non si esaurisce in semplici schemi storici e sociologici: questo luogo è la psicoanalisi”.
   Thomas Ogden (2013, p. 630) afferma:“Io vedo la psicoanalisi […] come un contenitore di profondo amore e rispetto per il linguaggio, inteso come veicolo non solo per la semplice espressione di pensieri e sentimenti ma, cosa più importante, come medium per la creazione di pensieri e sentimenti”.
   Inoltre, “se da un canto la scrittura è organizzata dalla memoria, la subisce, subisce le sue stratificazioni, le sue lacune, le sue impellenze e i suoi percorsi di contiguità; dall’altro non può limitarsi a una funzione di report e, per la sua stessa natura trasformativa e creativa, inevitabilmente, a sua volta la condiziona nel metterla in forma. Nel realizzarsi, la scrittura non può non deformare la memoria, forzarla, fino talvolta ad arrivare a generare la memoria stessa” (Munari, 2014, p. 948).
“Che differenza c’è, si chiede Agostino Racalbuto (2004), tra la parola erratica che va dalla poltrona al lettino [e viceversa, aggiungo io] e la parola ferma, circostanziata che caratterizza uno scritto? Lo scrivere presiede all’illusione di fermare il tempo, dare una casa a ciò che è, per sua natura, erratico, di stabilire dei punti che permettano alla forma della scrittura e al contenuto che esprime di appartenersi per un po’ l’una all’altro, come il corpo all’anima” (p. 288).
Si tratta di andare alle origini somatopsichiche della fragile memoria dell’analizzando e contemporaneamente recuperare la propria memoria implicita, per costruire un’epifania anche sensoriale che sia il risultato diintensi scambi tranfero-controtransferali e che metta in gioco tutta la vita emotiva delle due persone che si incontrano nella stanza di analisi.
Freud (1913, p. 259) sosteneva che per linguaggio “non si deve intendere la pura espressione di pensieri in parole, ma anche il linguaggio gestuale e qualsiasi altro tipo d’espressione di un’attività psichica, come ad esempio la scrittura”.Si tratta di descrivere, e non solo sottintendere, una serie di traslochi e di andirivieni, in quanto la riformulazione mentale a posteriori  del materiale clinico (Boccanegra, 1997) è strettamente connessa alla possibilità di ripensamento attraverso la scrittura in modo che elementi sfuggiti al “conscio”, ma ancora presenti, possano affiorare nella scrittura degli appunti, favorendo la funzione autoriflessiva dell’analista che scrive e stimolando una nuova comprensione del materiale clinico.

   Quando a Giovanni, un giovane paziente che avvertiva la sua esistenza corrosa da intensissimi dolori addominali e angosce abbandoniche, è stato possibile esprimere in seduta il dolore, ma anche la rabbia per l’impossibilità di una vita attiva, perché continuamente minata dalla paura di non essere all’altezza di qualunque aspettativa, i dolori addominali hanno cominciato ad avere una presenza meno ingombrante e nel giro di pochi mesi non sono stati più un argomento centrale dei nostri incontri. Successivamente, dopo essere stati per un certo periodo un aspetto collaterale e poco significativo delle sue difficoltà, sono andati scomparendo dalla sua pancia, trasformandosi in parole, in capacità di sognare. Il primo sintomo di presentazione delle difficoltà aveva una concretezza organica, quasi a dimostrazione di qualcosa di consistente e in qualche modo di riconoscibile e condivisibile. E’ proprio sull’esigenza di riconoscibilità e di costituzione di un terreno condiviso (“Mi creda, si tratta di dolori al limite della sopportazione, come lei non ha mai provato!”) che mi sono eticamente soffermato, non allontanandomi dal sintomo dolore organico, non andando subito a cercare l’eventuale correlato mentale. In quel momento Giovanni poteva esprimersi in quel modo (non era in grado di fare lavoro psicologico inconscio, direbbe Ogden[2]) e uno spostamento di piani avrebbe eluso il suo bisogno di condivisione e di contenimento[3]. E’ stato proprio il contenimento iniziale, il “credere” da parte mia al sintomo, all’autenticità della sofferenza e alla sua localizzazione che ha poi permesso il corpo a corpo con le sue credenze. I miei appunti a fine seduta erano scarni e freddi come il diario clinico di un medico ospedaliero; il dolore veniva descritto meccanicamente nella sua intensità, localizzazione, propagazione; la narrativa era ripetitiva. Questa asetticità nella scrittura degli appunti confliggeva, però, con l’intensa partecipazione emotiva alle difficoltà anche fisiche di Giovanni. Proprio la contraddizione tra il vissuto emotivo e la freddezza espositiva degli appunti, che rimandava anche alle mie difficoltà di rappresentazione verbale e scritta,quando ero io stesso preda di disturbi fisici che minavano la mia sicurezza esistenziale, ha innescato un processo di valorizzazione di quanto in quel momento Giovanni era in grado di rappresentare e ha portato alla mia successiva richiesta di fargli esplicitare pensieri e teorie sui suoi dolori con domande di precisazione e di individuazione, preparando una sorta di canovaccio da cui poter partire per costruire la storia di quei dolori. L’originaria povertà degli appunti, vissuta in antitesi alla ricchezza del mio vissuto partecipativoha facilitato la costituzione di uno scenario che ha consentito a Giovannidi rappresentare con modalità nuove il suo dolore, senza compiacenze intellettualistiche da un lato, senza il timore di portare un prodotto non apprezzato dall’altro. Si è trattato di organizzare, almeno inizialmente, nei miei pensieri prima, e nei mei appunti poi, i sintomi sia sul piano simbolico, sia sul piano “concreto” per poter costruire delle verità parziali sufficientemente digeribili per il paziente rispetto alle sue angosce e corporee e mentali. Il paziente, sentendo che il suo corpo veniva visto e immaginato, parlato al contempo, poteva provare a diventare soggetto della propria storia, non più parassitato dai sintomi.Scomparsi dalla scena i dolori addominali senza alcun clamore, senza alcuna sottolineatura, se non una certa soddisfazione espressa dai suoi genitori più che da lui, e dal paziente riportata in seduta, sono emerse e venute in primo piano le sue difficoltà esistenziali e ha trovato spazio una narrazione più riccamente strutturata, a cui ha fatto da contrappunto una mia scrittura descrittiva e autodescrittiva più fluida, meno ripetitiva e amorfa.

Dice lo scrittoreMurakamiHaruki (2007, p. 106): “Mentre scrivo, penso. […] Non è che metta per iscritto le cose che ho pensato, le penso mentre le scrivo. Le mie idee prendono forma nell’atto stesso di scrivere. E rivedendo quanto ho scritto, approfondisco le mie riflessioni”.

I procedimenti psichici messi in atto dall’analista che scrive sono diversi da quelli dello scrittore. Deve evitare un’eccessiva saturazione teorica e insieme un eccesso di immersione nella storia privata della relazione analitica per favorire l’eventuale successiva condivisione attenta e universale dei colleghi e dei lettori in generale.

Gli analisti, a differenza degli scrittori, non possono viaggiare liberi senza bagaglio a mano, non possono piegare a loro piacimento “la verità”, abbellendola, colorandola, reinventandola,drammatizzandola, sdrammatizzandola, ma devono tenere ferma la barra dell’onestà scientifica che contempla anche ambiguità, ambivalenze, incomprensioni, sospensioni di ogni valutazione critica.

“L’elaborato clinico si colloca come genere letterario in un contesto ambiguo, tra il saggio e la novella,tra l’apparente e il latente; si può definire come una produzione espositiva di confine, cui partecipano vari stili di pensiero” (Giuffrida, 2004, p. 235).Lo stile diventa talvolta ondivago, passando dalla pura narrazione delle storie e delle emozioni in campo, senza una predeterminazione, una finalizzazione,alla costruzione di un linguaggio e quindi di un ordito che dia spazio alle convinzioni scientifiche che organizzano con altre modalità il materiale scritto, talvolta impuro, risentendo in contemporanea di entrambe le esigenze.
“I contenuti delle annotazioni rinviano un campo semantico ad un altro, contengono intersecazioni di piani di coerenze significative e stabiliscono corrispondenze tra diversi piani di realtà, tra le immagini descrittive nel loro contesto realistico e quelle relative ad una traduzione arbitraria e soggettiva” (Vigneri, 2002, p. 124).

Lo scrivere dopo la seduta permette che il materiale clinico incompiuto possa essere rivisitato attraverso una nuova cifra stilistica, dando origine a una nuova rappresentazione scenica e a una nuova descrizione che, a loro volta, possano rimandare al materiale clinico originario in una serie di continui transiti trasformativi dalla parola all’ascolto, al pensiero, alla scrittura e viceversa, favoriti proprio dall’incompiutezza che favorisce molteplici possibilità di elaborazione interna.
Scrive Meltzer (1992, p. 77): “Dapprima, forse, noi cerchiamo di vedere se una formulazione ‘copre’ il materiale da trattare. Poi in uno stato di ‘quiete’, possiamo valutare il suo grado di armonia con il materiale e le interpretazioni precedenti. In seguito valutiamo le sue conseguenze rispetto alla comparsa di nuovo materiale e all’evoluzione di un processo. La forza della nostra convinzione non deriva tuttavia, a mio avviso, da questo sposarsi dell’intuizione con il giudizio. Deriva piuttosto dalla componente estetica dell’esperienza, dalla ‘bellezza’ con cui il materiale e la formulazione [e la trascrizione aggiungo io] coabitano, fioriscono, danno frutti, come una cosa indipendente da noi stessi”.

“La materia comanda lo stile, afferma uno straordinario Freud: un’opera, uno scritto analitico, non riesce a parlarci se non ha la capacità di conservare, di trattenere nel suo svolgimento e nel suo stile le tracce che lo hanno reso necessario; nel nostro caso la situazione analitica” (Chianese, 2004, p. 256).
E Bion (1962) precisa che il sistema di annotazione deve rendere possibile all’analista una registrazione che dopo un certo tempo gli risulti ancora comprensibile e che possa essere comunicata ad altri senza perdere sostanzialmente di significato.
   Scrive Pontalis (1990, p. 86): “Lo scrivere […] ha inizio con le parole che si imprimono nella mente [dell’analista] e che ritorneranno molto più tardi, quando le aveva già date per perdute; si deposita alla rinfusa nelle poche note buttate giù dopo una seduta; si fa a volte, arrivata la sera, sulle pagine di un quaderno che non verrà mostrato ad anima viva come se nel far questo avessimo bisogno non tanto di mettere ordine nei nostri pensieri quanto piuttosto di premunirci contro un rischio di invasione, di riprenderci in mano, riconquistare un’identità messa in forse, cercare di restaurare un’unità troppo minacciata”.

Tenere separati i diversi momenti, non sovrapporli, ma provare a confrontarli, a verificarne la vicinanza o la distanza, ci permette uno sguardo arricchito, soprattutto perché ci permette di interrogarci sul senso dell’intera seduta, sulle sequenze viste in successione all’interno di un contenitore stilistico formalmente più definito, anche se non stabile come quello del testo che diventerà pubblico. Non solo quindi le singole scene del film che ci hanno colpito, non solo l’interazione delle singole scene del film e lo spettatore, ma il tentativo di esprimere un ulteriore giudizio critico sull’incontro fra la sensibilità dell’autore e quello dello spettatore all’interno di un’esperienza formalmente compiuta, terminata (Boccanegra, 1997).

Quando mi venne alla mente d’émblée, mentre provavo a trascrivere i momenti salienti della seduta, apparentemente senza alcuno stimolo contingente, il viso sorridente di mia madre che recitava ame bambino un antico proverbio, mentre cercavo di sedurla per ottenere da lei qualcosa che mi era stato vietato: “Quando il diavolo ti accarezza, vuole l’anima”, mi fu possibile avvertire e discernere il senso e il fine inconscio dei movimenti seduttivi del paziente nei miei riguardi. Se da un lato era evidente il tentativo di se–durmi, di portarmi lontano dalla difficile realtà emotiva che stava vivendo, dai suoi pensieri clandestini, dall’altro mi stava probabilmente chiedendo una minore rigidità, come quella a cui mia madre nel ricordo aveva rinunciato sorridendomi, un aggiramento di un divieto che non poteva essere tollerato dal suo sé bambino. Ed è stato proprio il ricordo dell’antico proverbio e dell’antico sorriso che mi ha permesso di cominciare a scrivere di questi momenti aurorali di separazione di differenti significati della seduzione, quella perversamente clandestina che cercava di insinuarsi nella mia mente e quella infantile, in un certo senso benigna, che mi chiedeva una maggiore duttilità, una minore severità. La scrittura alla fine della seduta ha permesso impensabili possibilità di connessione con il mondo del paziente, fino a quel momento abitato ai miei occhi e ai miei sensi soltanto dal segreto e dalla finzione relazionale.

Non prendo appunti durante la seduta[4]per non perdermi neanche un attimo dell’intenso incontro con il mondo interno del paziente per come risuona dentro di me, per quanto mi colpisce e mi attrae. Scrivo a fine seduta suggestioni, come dire, pennellate impressionistiche, prive di coerenza formale, quello che mi ha colpito di più del paziente, alcuni miei ricordi, abbozzi interpretativi che non hanno ancora l’ambizione di un pensiero compiuto. Si tratta insomma di una modalità di lavoro che si inscrive tra il processo strutturato del pensare e il processo strutturato dello scrivere, dove il quaderno di appunti diventa un contenitore non metaforico, un bloc-notes molto reale, che si può tenere in mano e conservare (Pontalis, 1990).
“’Gesto minore’ dell’universo della scrittura, […] prescritto da uno stimolo speciale e soggettivo, complesso e con una qualità difficile da individuare, si iscrive sempre in un sistema interlocutorio, tra sé e nell’ascolto dell’altro. E’ attivato da un assetto mentale di ricerca ed esprime un ritrovamento o un riconoscimento nel pensiero di un suo appropriato oggetto: per la profondità o la peculiarità di un  contenuto, ed anche, nell’ascolto dell’altro, per una sorta di forma ‘estetica o poetica’” (Vigneri, 2002, p. 115).
Avviene qualcosa di sovrapponibile alle sensazioni descritte da MurakamiHaruki (2007, pp. 19 e 24) quando corre:“[quando corro] mi succede anche ditornare con la mente agli avvenimenti passati, così, senza nessun nesso logico. […] Posso affermare che non ho pensieri davvero coerenti. In quella sospensione spazio-temporale, pensieri ogni volta diversi si insinuano naturalmente nel mio cervello. […] Somigliano alle nuvole che vagano nel cielo. Nuvole di grandezza e forma diverse che arrivano, e se ne vanno, semplici ospiti di passaggio. […] Riesco a rendermi conto chiaramente delle cose soltanto quando le percepisco attraverso la mia carne viva, attraverso una materia che posso toccare con mano. Le trasformo in una forma visibile, e solo allora me ne convinco”.
Le trasformazioni delle sensazioni di carne viva in una forma visibile e condivisibile di cui parla Murakami sono molto simili alla trasformazione in scrittura di quelle relazioni che hanno a che vedere con la carne viva di due persone in profondo contatto emotivo durante l’analisi.

CONCLUSIONI

“Che cos’è lo stile? E’ fare di un atto difficile un gesto grazioso, è dare un ritmo alla fatalità. E’ essere coraggioso senza disordine, è dare alla necessità l’apparenza della libertà” (Roland Barthes).

Riprendendo le riflessioni di Freud circa la sublimazione dell’aggressività insita nella pratica sportiva, aggiungo che non è raro che i giovani atleti siano stati bambini turbolenti, o addirittura veri e propri bambini iperattivi che hanno trasformato il vissuto di onnipotenza in un progetto quale quello sportivo, certamente artificiale, ma socialmente riconosciuto e grandemente valorizzato. L’attività sportiva, però, può riprodurre o addirittura peggiorare relazioni oggettuali patologiche, oppure favorire una qualche loro positiva elaborazione (Free, 2008).
Per mettere in scena un progetto di performance psicomotoria sportiva, l’atleta deve intrattenere una relazione molto stretta con la presenza di un’assistenza tecnica e scientifica. Da solo, oggi, non potrebbe ottenere risultati significativi. La relazione dell’atleta con il suo corpo si inscrive, pertanto, nell’interazione con il suo ambiente (tecnico, medico sportivo, fisioterapista, squadra) e facilita una relazionalità micro- e macrosociale, che altrimenti rischierebbe di essere irrealizzabile.
E’ proprio la necessaria socializzazione insita nella pratica sportiva ad evitare che l’allenamento intensivo, con caratteristiche ossessive di ritualità e ripetizione al fine di facilitare la fissazione mnesica dei differenti gesti e sequenze di movimenti, favorisca il dispiegarsi del vissuto di esistenza unicamente nella prova muscolare in atto e nelle sensazioni spesso eccitanti che si provano per esempio durante la contrazione e il rilasciamento dei muscoli (Carrier, 2002).
Soltanto la valorizzazione relazionale nell’incontro con l’allenatore e la capacità di sognare insieme, la necessità di appartenenza al gruppo con le relative possibili identificazioni multiple, il riconoscimento del bisogno affettivo, della ricerca dello sguardo dell’altro, insito nella pratica sportiva,possono favorire un aumento dell’auto-stima e della capacità di costruire e/o rinforzare l’adattamento a situazioni nuove, impreviste o imprevedibili, potenzialmente intensamente ansiogene (Schinaia, 2014), ed essere antidoti contro la deriva di un’educazione al controllo motorio che possa evocare un incitamento a investire le sensazioni legate al movimento in termini compulsivi e a favorire il ritrovamento di un piacere infantile insito primariamente nell’atto motorio e sportivo in sé e solo successivamente situato nella realizzazione della performance.

La riflessione e i movimenti emotivi che sostengono la scrittura di un primo testo alla fine della seduta, pur entrando immediatamente nella costruzione del materiale che poi attraverso successive elaborazioni viene (o può essere) pubblicato, non sono stati molto oggetto della riflessione degli psicoanalisti, che ha prevalentemente privilegiato la descrizionel’hic et nunc nella  relazione o direttamente la scrittura di un testo organizzato per la pubblicazione.
Dare spazio e senso a questa fase preliminare della scrittura, agli appunti messi giù alla fine della seduta, permette che le successive fasi elaborative dello scrivere di psicoanalisi, inteso come il dare voce a una storia, non siano un’attività solipsistica di rielaborazione di incontri fra due persone, ma si avvalgano della presenza e del confronto con un terzo, di volta in volta lo stesso psicoanalista quando rilegge quanto ha scritto, il lettore, il sistema teorico al cui interno è iscritta la modalità osservativa e auto-osservativa che ha generato il testo scritto.
Lo scrivere deve dare il polso di come l’analista ha percepito, decodificato trattato le comunicazioni del paziente in base al proprio personale modo di sentire e non di come oggettivamente sono andate le cose. E’ lo stesso Freud a metterci in guardia quando, nella stesura del caso di Dora (1901), ci avverte che la messa per iscritto del caso clinico non è assolutamente fedele e che vi è un dosaggio del soggettivo e dell’oggettivo.
Uno scrivere non difensivo, non seduttivo, seppure all’interno di un contesto teorico, che ordini e renda fruibile e più o meno condivisibile il testo per mezzo di un linguaggio che, separandosi dal privato di chi scrive si rivolge agli altri assenti, al pubblico dei lettori, per rendere partecipe la comunità scientificadi quanto è maturato in noi sul piano teorico clinico, ma anche per rintracciare nel testo aspetti a noi ancora non noti; scrivere per dialogare e, in tal modo, facilitare l’emergere di libere associazioni su noi stessi.

Vi sono diversi punti in comune tra l’attività motoria libera, il correre e lo scrivere. Boni (2015) evidenzia come scrivere e correre una maratona abbiano in comune la stessa costanza e lo stesso tentativo di inserire delle pause nella vita. Si tratta in ognuna di queste attività di rendere fattualidisposizioni pulsionali, quali la motilità, ladisposizione innata al movimento, chediventa nello sviluppo capacità di camminare e correre a patto che vi sia un contenitore al cui interno si possa essere guardati, apprezzati, confermati, e quindi educati via via fino all’attività sportiva. Ma anche lo scrivere, da disposizione naturale all’autobiografia, al racconto di sé, di sé con l’altro e di sé nel mondo abbisogna di un contenitore “allenante”, dotato cioè tanto di capacità accoglienti, quanto di capacità strutturanti che, di volta in volta possono essere il costrutto espositivo scelto, una teoria scientifica, un lettore, capace di fare suo, e quindi di reinventare, il testo, riproponendolo in una serie potenzialmente infinita di passaggi trasformativi.

BIBLIOGRAFIA

Argentieri S., (2014). Il padre materno. Torino: Einaudi.
Augé M., (2008). Il bello della bicicletta. Tr. it. Torino: Bollati Boringhieri, 2009.
Barthes R., Marty E., (1980). “Orale-scritto”. In Enciclopedia, vol. 10,pp. 60-86. Torino: Einaudi.
Barthes R., (2004). Lo sport e gli uomini.Trad. it.Torino: Einaudi, 2007.

Bateson G., (1972). Per un’ecologia della mente. Trad. it. Milano: Adelphi, 1976.
Benni S., (1998). Elianto. Milano: Feltrinelli.
Bion W. R., (1962). Apprendere dall’esperienza. Trad. it.Roma: Armando, 1979.
BionW.R., (1987). Seminari clinici. Trad. it. Milano: Cortina,1989.
Boccanegra L., (1997). La “poltrona vuota”: l’elaborazione controtransferale attraverso il gruppo dei colleghi. In E.Gaburri (a cura di) Emozione e interpretazione, pp. 193-202. Torino: Bollati Boringhieri.Boni M., (2015). Solo per un giorno. Roma: 66THAND2ND.
Carrier C., (2002). Mouvement. In Le champion, sa vie, sa mort.Psychanalyse de l’exploit. Paris: Bayard.
Carroll L., (1871). Attraverso lo specchio. In Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio.Trad. it.Milano: Garzanti, 2014.
Chianese D., (2004). Sulla scrittura e la trasmissione della psicoanalisi. Riv. Psicoanal. Numero speciale 1934–1954–2004: 243-257.
Cooper A. M., (1981). Masochism and Long DistanceRunning. In M. H. Sachs & M. L. Sachs (Eds) Psychology of Running(pp. 267-273). Champaign, IL: Human Kinetics.
Cuvier G. B., (1823). Histoire desprogrèsdessciencesnaturellesdepuis 1789 jusqu’à ce jour. Ristampa, Charleston: Bibliobazaar, 2009.
Demetrio D., (2005). Filosofia del camminare.Esercizi di meditazione mediterranea. Milano: Cortina.
DeutschE., (1926). Contribution to Psychology of Sport. Int. J. Psycho-anal., 7: 223-227.
Fachinelli E., (1989). La mente estatica. Milano: Adelphi.
FenichelO., (1939). The CounterphobicAttitude. Int. J. Psycho-anal., 20: 263-274.
Free M., (2008). PsychoanalyticPerspectives on Sport: A Critical Review. Int. J. Appl. Psychoanal. Studies, 5: 273-296.
Freud S., (1901). Frammenti di un’analisi di isteria. OSF, vol. 4.
Freud S., (1905). Tre saggi sulla teoria sessuale. OSF, vol. 4.
Freud S., (1909).Osservazioni su un caso di nevrosi ossessiva.OSF, vol. 6.
Freud S., (1913). L’interesse per la psicoanalisi. OSF, vol. 7.
Freud M., (1958). Mio padre Sigmund Freud.Trad. it. Trento: Il Sommolago, 2001.
Giuffrida A., (2004). Il trovato-creato come oggetto di scrittura. Riv. Psicoanal. Numero speciale 1934-1954-2004: 229-241.
Kundera M., (1995). La lentezza. Trad. it. Milano: Adelphi, 1999.
Magris C., (1982). L’imbarazzo di Mefistofele. In Itaca e oltre. Milano: Garzanti.
Mancia M., (2004). Sentire le parole. Archivi sonori della memoria implicita e musicalità del transfert. Torino: Bollati Boringhieri.
Meltzer D., (1992). Claustrum. Uno studio sui fenomeni claustrofobici. Trad. it. Milano: Cortina, 1993.
Mittelmann B., (1954). Motility in Infants, Children, and Adults – PatterningandPsychodynamics. Psychoanal. Study of the Child, 9: 142-177.
Montale E. (1996). Genova nei ricordi di un esule. In Opere complete, vol. 2-3, Milano: Mondadori.
Munari F., (2014). Scrivere: i tempi, le forme. Temporalità psichica e identificazioni isteriche nel processo di scrittura. Riv. Psicoanal., LX, 4: 947-968.
MurakamiH., (2007). L’arte di correre. Trad. it. Torino: Einaudi, 2009.
Nicolò A. M., Tavazza G., Ricciotti V., (2004). Appunti sullo scrivere di clinica in psicoanalisi: uno stimolo per l’autocura dell’analista. Riv. Psicoanal. Numero speciale 1934–1954–2004: 243-251.
Ogden Th., (2009). Riscoprire la psicoanalisi. Pensare sognare, imparare e dimenticare. Trad. it. Milano: CIS, 2009.
Ogden Th., (2013). Thomas Ogden in conversationwith Luca Di Donna. Riv. Psicoanal., LIX, 3: 625-641.
PontalisJ-B., (1990). La forza dattrazione. Trad. it. Roma-Bari: Laterza, 1992.
Quinodoz D., (1997). Le vertigini tra angoscia e piacere.Trad. it. Milano: FrancoAngeli, 2005.
Racalbuto A., (2004). Le parole della cura e la cura delle parole. Riv. Psicoanal. Numero speciale 1934–1954–2004: 275-288.
Rowlands M., (2013). Correre con il branco. La filosofia della corsa e tutto quello che ho imparato dalla natura selvaggia.Trad. it. Milano: Mondadori, 2014.
Sachs M. H., (1984). A PsychoanalyticPerspective on Running.In M. L. Sachs & G. W. Buffone (Eds) RunningasTheraphy: an Integrate Approach(pp. 101-111). Lincoln NB: Universityof Nebraska Press.
Schinaia C., (2014). Gabriele Rosa, l’esploratore della corsa di lunga lena. Prefazione a Rosa G., Correre la vita. Sulla storia della maratona contemporanea. Genova: Il Melangolo.
SearlesH. F. (1960). L’ambiente non umano nello sviluppo normale e nella schizofrenia. Trad. it. Torino: Einaudi, 2004.
Semi A. A., (2014). Psicoanalisi della vita quotidiana. Milano: Cortina.
Vigneri M., (2002). La trascrizione clinica: sul prendere appunti. In A. Vergine (a cura di)Trascrivere l’Inconscio. Milano: FrancoAngeli.
Weber R., (2007). Perché corriamo?Torino: Einaudi.







[1] Ovviamente per quanto radicate nel patrimonio genetico, le pulsioni motorie non sono mai meccaniche, automatiche, ma interagiscono con gli aspetti psicologici, relazionali, socio-culturali.
[2] Ogden (2009) sostiene che le fobie rappresentano tipi di interruzione del sognare. “Il paziente che manifesta questo tipo di sintomatologia è in grado di sognare (di compiere lavoro psicologico inconscio) con la propria esperienza vissuta solo fino a un certo punto. Il sintomo nevrotico segna il punto dove l’individuo cessa di essere capace di fare lavoro psicologico inconscio e al posto di questo lavoro viene generata una statica costruzione psicologica/sintomo” (p. 51).

[3]Bion (1987, p. 246) scrive: “Picasso traccia un disegno su una lastra di vetro cosicché può essere visto da un lato e dall’altro. Vorrei suggerire qualcosa di analogo: guardate da un lato, c’è un dolore psicosomatico. Giratelo, ora è somapsicotico. E’ lo stesso, ma ciò che si vede dipende dal modo in cui lo si guarda, da quale posizione, da quale vertice – o qualsiasi termine preferiate usare”.
[4] Scrive Freud (1901, p. 307): “Il medico […]durante la seduta col malato non può prendere appunti, per non suscitare la diffidenza del paziente e non disturbare il proprio intendimento del materiale da raccogliere”.

Nessun commento:

Posta un commento