venerdì 5 febbraio 2016

Sofferenza e piacere nella corsa di lunga lena - trattato in forma breve

COSIMO SCHINAIA

SOFFERENZA E PIACERE NELLA CORSA DI LUNGA LENA

“Ci vuole un gran fisico per correre dietro ai sogni” (Stefano Benni)

INTRODUZIONE

Se pensiamo a come i futuri genitori avvertano l’attività motoria spontanea del feto attraverso la parete uterina come sinonimo di vita e di benessere, che va di pari passo con il giudizio di sanità che viene dato dai medici e a come, al momento del parto, sia il pianto del neonato, conseguente ai primi movimenti respiratori, a segnalare l’inizio della vita sociale del lattante, ci rendiamo conto dell’enorme significato non solo organico, ma simbolico e culturale che il movimento viene ad assumere. Il piccolo animale, il bambino ha organicamente tanto bisogno di movimento in termini assoluti e profondi, quanto del dormire e del mangiare. E’ necessario che si agiti, che gridi, che respiri violentemente, che si lasci andare alle attività esplosive del gioco. In fisiologia, la motilità si definisce come l’insieme delle funzioni che assicurano la motricità. Freud nel Tre saggi sulla teoria sessuale dedica una sezione all’attività muscolare che procura un piacere associato a un soddisfacimento sessuale. Scrive (1905, p. 510): “Si sa che una grande attività muscolare è per il bambino un bisogno, dal soddisfacimento del quale egli trae un piacere
straordinario. […] Numerose persone raccontano di avere sperimentato i primi sintomi di eccitazione nei loro genitali durante zuffe o lotte con i loro compagni di gioco, situazione questa nella quale, oltre lo sforzo muscolare generale, si fa sentire anche un completo contatto cutaneo con l’avversario. […] Per molti individui il nesso infantile tra baruffe ed eccitamento sessuale è una codeterminante per la direzione che in seguito preferiranno nella loro pulsione sessuale”. In una nota aggiunta del 1909 Freud confermerà “la natura sessuale del piacere di muoversi”, aggiungendo: “L’educazione moderna si serve, com’è noto, largamente dello sport per deviare i giovani dall’attività sessuale; sarebbe più giusto dire che essa sostituisce il godimento sessuale con il piacere di muoversi e respinge l’attività sessuale a una delle sue componenti autoerotiche” (p. 510). Per Freud quindi, la motricità appare altrettanto essenziale nella ricerca del piacere e nel suo accomodamento con l’esterno. Lo sport inoltreviene indicato come compromesso fra le intense pulsioni sessuali e il necessario rapporto con la società circostante, la sublimazione quindi di pulsioni basali in un’attività fortemente investita dall’ambiente circostante. I primi lavori psicoanalitici su psicoanalisi e sport risentono ovviamente della matrice freudiana e danno spazio soprattutto agli aspetti difensivi insiti nello svolgimento dell’attività sportiva.Deutsch (1926) ha evidenziato in un caso clinico gli aspetti compensatori di un’incessante attività sportiva nei riguardi di sentimenti di inferiorità determinati da impotenza sessuale. Fenichel (1939) ha esplorato gli aspetti controfobici insiti nell’attività sportiva in relazione a stati di impotenza che portano a un crescente bisogno di abilità, padronanza. Sachs (1984) più recentemente ha descritto un caso in cui il correre con modalità compulsive ed eccitatorie costituiva un disperato tentativo di opporsi alla sofferenza psichica attraverso fantasie difensive di marca narcisistica, quali la totale autosufficienza, l’invincibilità, l’immortalità eArnold M. Cooper (1981, p. 271) ha definito “la corsa come un metodo socialmente riconosciuto per la gratificazione di potenzialmente pericolose tendenze narcisistiche e masochistiche”.Searles (1960, pp. 11-12), sottolineando il valore del sentimento di colleganza dell’uomo nei riguardi dell’ambiente non umano, si meraviglia che la psicoanalisi non si sia sufficientemente occupata del “nostro amore per il giardinaggio, del diletto che proviamo nel frequentare angoli amati della natura; del piacere di praticare sport attivi […], che ci avvicinano fisicamente alla natura”. Danielle Quinodoz (1997), invece, partendo dalle teorizzazioni kleiniane, valorizza la capacità dell’attività sportiva di consentire l’esperienza della “vertigine”, legata all’angoscia, in dosi maneggevoli, trasformando temporaneamente l’angoscia in piacere, ed evidenzia come l’equipaggiamento sportivo e il contesto possano configurarsi come un buon contenitore per le angosce dell’Io. Argentieri (2014, p. 20) ricorda il gioco del papà, che prende tra le mani il figlio piccolino e lo protende in alto, a braccia tese, per cui per un istante il bambino viene lanciato in aria e poi saldamente riafferrato, provando la piacevole ebbrezza del volo, ma anche un po’ di paura e smarrimento. “È forse la prima occasione per sperimentare il piacere della vertigine, che darà poi spunto alle infinite variazioni dei divertimenti basati sul movimento del corpo nello spazio: dal girotondo alla giostra, fino alle montagne russe”.
A PROPOSITO DEL CORRERE, DELLE ENDORFINE E DELLA MEMORIA IMPLICITA
“Amo l’atletica perché è poesia. Se la notte sogno, sogno di essere un maratoneta” (Eugenio Montale).
“Proprio nello sforzo enorme e coraggioso di vincere la fatica riusciamo a provare almeno per un istante, la sensazione autentica di vivere” (MurakamiHaruki).

“L’uomo che corre a piedi è sempre presente al proprio corpo: quando corre, avverte il proprio peso e la propria età ed è più che mai consapevole di se stesso e del tempo della sua vita” (Milan Kundera).

Le citazionievidenziano gli aspetti psicologi ed esistenziali insiti nella corsa di lunga lena. L’anelito alla leggerezza nella visione di Montale ci fa vedere come tracce del linguaggio onirico permettano di entrare in risonanza con aspetti corporei intensamente vissuti.Murakami descrive la sofferenza insita nella fatica, ma insieme il piacere legato alla capacità di  vincere la sofferenza.Kundera mette in risalto la necessaria valutazione dei propri limiti come antidoto antinarcisistico, ma anche il senso del loro consapevole superamento, nei termini di valorizzazione delle proprie potenzialità psicofisiche.
Oggi si assiste, soprattutto nell’investimento sportivo di alto livello, a una visione tecnicistica del corpo tendente ad analizzare il movimento come una cosa in sé, dipendente soltanto dalle leggi biomeccaniche, senza tenere conto che l’evolversi della motricità, intesa come filo conduttore dello sviluppo attorno al quale si forgia l’unità somatopsichica della persona, e l’ordine motorio sono l’oggetto stesso della pratica sportiva e non un corollario. Per esempio, a tutti è noto il cosiddettorunner's high (sballo del corridore), che va inteso come una certa sensazione di euforia riscontrata da molti atleti durante la pratica sportiva prolungata. Alcune recenti ricerche hanno provato la dipendenza di questa sensazione euforica dal rilascio di endorfine da parte del lobo anteriore dell'ipofisi durante l'esercizio fisico di una certa durata. Essendo necessario uno sforzo prolungato, il runner's high è molto più frequente in atleti specializzati nelle attività aerobiche, in particolare maratona (da qui il nome) o ciclismo. Voglio però proporvi un’altra visione del piacere provato nel correre (o nel pedalare) che non è alternativa alla teoria del rilascio ipofisario di ormoni endorfinici, ma che la integra ed arricchisce. In virtù degli studi neuroscientifici, è possibile distinguere tra memoria implicita o non dichiarativae memoria esplicita o dichiarativa. Molte esperienze emotive, avvenute in un’epoca precoce della nostra vita, sono rimaste impresse nella mente e continuano ad influenzare il comportamento, al di là di ogni nostra possibile consapevolezza. Freud sosteneva che l’amnesia infantile, cioè il fatto che non serbiamo alcun ricordo dei nostri primi tre anni di vita, fosse dovuto alla rimozione. Oggi si attribuisce l’amnesia della prima infanzia al fatto che i bambini non hanno, a quell’età, un sistema rappresentativo capace di dare significato al ricordo. In psicoanalisi possiamo distinguere l’inconscio rimosso descritto da Freud, dinamico e fondato sulla rimozione, come espressione del modello pulsionale, dall’inconscio non rimosso, quale espressione di un modello relazionale e contenitore di esperienze precoci e preverbali, che hanno partecipato all’organizzazione di rappresentazioni affettive delle figure più significative nello sviluppo del bambino, e di fantasie e difese rispetto a delusioni, frustrazioni e traumi diversi che il bambino ha incontrato nel suo impatto con la realtà.Queste fantasie e difese rispetto a traumi relazionali precoci, depositate nella memoria implicita e pertanto non simboliche e non verbalizzabili, non possono essere ricordate, ma sono in grado di condizionare la vita affettiva, cognitiva e sessuale anche dell’adulto. Esse possono essere conosciute nella relazione analitica attraverso alcune modalitàtransferali che richiamano le esperienze più precoci, e attraverso la funzione simbolopoietica del sogno, capace di trasformare e rendere verbalizzabili esperienze originarie non pensabili (Mancia, 2004).In base a questa distinzione è assolutamente pertinente quanto scrive Demetrio (2005, pp. 19-22): “Il primo giorno in cui ci si incamminò da soli, ondeggiando verso un oggetto attraente, incoraggiati dal cenno di una mano adulta, nell’ombra premurosa di chi ci era accanto, ci teneva per i polsi, fa parte dell’album personale degli oblii insondabili di ciascuno di noi […].Non ci apparterrà mai il nitido momento personale, l’istante esatto di quando ciò avvenne, pur essendone gli autori, fra l’altro festeggiati. Di questo primo, primissimo rito di passaggio non resta ‘vera’ memoria alcuna […]. La memoria autobiografica dei primi passi è irrecuperabile; pretendere di rievocarne con lucidità l’esperienza è un’innocente menzogna. E’ grazie alla smemoratezza necessaria che il camminare diventerà una forma di conoscenza perduta, perseguita quanto altre memorie. E’ profonda. Viene subito catturata dall’inconscio che la custodirà restituendola non in forma di improvviso ricordo, di comportamento […] quando chiederemo al camminare [o al correre, aggiungo io] – oltre alle consuete mansioni – di estenuarci, quasi di purificarci, oppure di darci piacere, di concederci libertà e fughe solitarie”.Demetrio ha descritto tanto precisamente, quanto poeticamente, la memoria proceduraledei neuroscienziati, cioè la memoria per esperienze motorie e cognitive, quella necessaria per gli sport o per suonare gli strumenti, ma anche la memoria affettiva ed emotiva, che è presentenelle prime esperienze affettive che caratterizzano le relazioni del bambino con l’ambiente in cui nasce e in particolare con la madre.Così come in momenti particolari dell’analisi, all’interno della relazione analista-analizzando, attraverso i sogni di quest’ultimo è possibile entrare in contatto con l’inconscio non rimosso, così possiamo pensare che il piacere che deriva dal correre e che si intrecciaall’intenso impegno psicofisico, all’enorme dispendio energetico che si ha durante una maratona, non sia determinato dall’automatico drogarsi con una sostanza endogena morfinosimile, dallo sballo del corridore, ma che rimandi ad esperienze piacevoli legate al mettersi in piedi, al correre per abbracciare la mamma e il papà, all’inebriarsi per i complimenti ricevuti, al godere del risultato, successivo a molte frustrazioni, ottenuto in seguito a fatica,al confronto con il nuovo assoluto e all’aumento della capacità di controllare il mondo esterno. Queste modalità di costruzione e di percezione diun piacere commisto al dolore non sono certamente in contrasto con la produzione di endorfine, così come le origini psicologiche delle emozioni e degli affetti non contrastano con la presenza e l’azione dei neurotrasmettitori chimici, ma integrano ed arricchiscono il ruolo di questi ormoni ipofisari, dando loro un ruolo non meccanico, non automatico, ma conseguente a vissuti che rimandano ad esperienze antiche e profonde, dotate di grande intensità affettiva.PerRowlands (2013), la conoscenza intrinseca al correre non è acquisita di recente, bensì recuperata e scrive (pp. 8 e 10): “Nelle lunghe corse sento i sussurri di un’infanzia che non potrò mai più riavere e di una casa a cui non potrò mai più tornare. In questi sussurri, nei brusii e nei borbottii delle lunghe corse, ci sono istanti in cui comprendo di nuovo quel che un tempo sapevo. […] Correre è uno spazio in cui posso ricordare: non i pensieri altrui, bensì ciò che molto tempo fa sapevo, ma sono stato costretto a dimenticare, via via che crescevo e diventavo una persona. Sapevo, anche se non me ne rendevo conto […]. Correre è un luogo del rimemorare. Ed è in questo luogo che ritroviamo il significato della corsa”.Semi (2014, p. 172) ci avverte che “Ci sono delle acquisizioni che, una volta fatte, ci illudiamo siano eterne. Andare in bicicletta, nuotare, camminare. […] Sono tutte acquisizioni motorie e, alcune fondamentali per la vita stessa. Però sono acquisizioni e dunque possono essere rinegoziate o anche perdute”.La rinegoziazione e l’evitamento della perdita può avvenire anche attraverso la riacquisizione o l’acquisizione ex novo di abilità motorie o sportive tout courte del piacere che nederiva, spesso ritenute impensabili, perché non sufficientemente investite.

CONCLUSIONI

Riprendendo le riflessioni di Freud circa la sublimazione dell’aggressività insita nella pratica sportiva, aggiungo che non è raro che i giovani atleti siano stati bambini turbolenti, o addirittura veri e propri bambini iperattivi che hanno trasformato il vissuto di onnipotenza in un progetto quale quello sportivo, certamente artificiale, ma socialmente riconosciuto e grandemente valorizzato. L’attività sportiva, però, può riprodurre o addirittura peggiorare relazioni oggettuali patologiche, oppure favorire una qualche loro positiva elaborazione (Free, 2008).
Per mettere in scena un progetto di performance psicomotoria sportiva, l’atleta deve intrattenere una relazione molto stretta con la presenza di un’assistenza tecnica e scientifica. Da solo, oggi, non potrebbe ottenere risultati significativi. La relazione dell’atleta con il suo corpo si inscrive, pertanto, nell’interazione con il suo ambiente (tecnico, medico sportivo, fisioterapista, squadra) e facilita una relazionalità micro- e macrosociale, che altrimenti rischierebbe di essere irrealizzabile.E’ proprio la necessaria socializzazione insita nella pratica sportiva ad evitare che l’allenamento intensivo, con caratteristiche ossessive di ritualità e ripetizione al fine di facilitare la fissazione mnesica dei differenti gesti e sequenze di movimenti, favorisca il dispiegarsi del vissuto di esistenza unicamente nella prova muscolare in atto e nelle sensazioni spesso eccitanti che si provano per esempio durante la contrazione e il rilasciamento dei muscoli (Carrier, 2002). Soltanto la valorizzazione relazionale nell’incontro con l’allenatore, la necessità del gruppo con le relative possibili identificazioni multiple, il riconoscimento del bisogno affettivo insito nella pratica sportiva possono favorire un aumento dell’auto-stima e della capacità di costruire e/o rinforzare l’adattamento a situazioni nuove, impreviste o imprevedibili, potenzialmente intensamente ansiogene (Schinaia, 2014), ed essere antidoti contro la deriva di un’educazione al controllo motorio che possa evocare un incitamento a investire le sensazioni legate al movimento in termini compulsivi e a favorire il ritrovamento di un piacere infantile insito non nella performance, ma nell’atto motorio e sportivo in sé.Si trattadi rendere fattuali disposizioni pulsionali, quali la motilità, la disposizione innata al movimento, che diventa nello sviluppo capacità di camminare e correre a patto che vi sia un contenitore al cui interno si possa essere guardati, apprezzati e quindi educati via via fino all’attività sportiva.

BIBLIOGRAFIA
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