Ecomezza da Botanpò a Potanbò.
La neve è arrivata
silenziosa, confondendo i contorni delle case, dei tetti, delle auto,
nascondendo tutto col suo manto candido. Eppure ieri c’era il sole, ieri era
una giornata gelida e bellissima ancora dipinta nel cuore, una giornata da
correre.
Piovera mi era stata
sussurrata, come sede di una mezza un po’ particolare. Economica, innanzi
tutto, ma anche diversa dalle altre per quel suo ramificare i chilometri di
gara su sterrato, tra argini, tra campi.
Una mezza senza clamore, un percorso intimo.
Ero già iscritta ad una
21 internazionale, sapevo di non avere le gambe né per l’una né per l’altra, ma
mi chiedevo quale scusa avrei trovato per non andarci.
Allora mi sono posta
delle condizioni. Finire dignitosamente il percorso di Santa Margherita, vedere
la condizione delle gambe il giorno dopo e valutare attentamente se gli impegni
di questi giorni mi avrebbero permesso la partecipazione ad una nuova mezza.
Chiudendo a Santa
dapprima ho pensato che con le mezze avevo già dato il mio tributo per tutto
l’anno. Ma
la voglia di correre scacciata dalla porta si è ripresentata dalla finestra, e quando sono arrivata a casa, barando a me stessa con l’assunzione di un’aspirina, ho trovato che le gambe erano in ottimo stato per correre di nuovo sui 21km.
la voglia di correre scacciata dalla porta si è ripresentata dalla finestra, e quando sono arrivata a casa, barando a me stessa con l’assunzione di un’aspirina, ho trovato che le gambe erano in ottimo stato per correre di nuovo sui 21km.
La settimana di impegni
è volata, ma lei, la corsa, in questi giorni, è venuta sempre al primo posto,
preghiera mattutina, chilometri calcati in silenzio per la campagna del mio
paese, pace con me stessa, con il mondo, impegno rinnovato. Tra poco finirà di
nuovo questa beatitudine di fughe fatte
all’alba, ora che però il tempo per la corsa c’era bisognava goderselo.
Meno 8 gradi e mezzo.
Masone esagera sempre, penso. Ma a Piovera la situazione è diversa solo di
poco. C’è una chiesa sconsacrata che ci accoglie, riparo dal gelo, consegna di
pettorali e pacchi gara. Tutto abbondante, vengo omaggiata anche di un cd in
quanto “donna”. Cartelloni illustrano il percorso odierno e quello di future
gare a venire. Il nome di Napoleone riecheggia tra queste mura, tra questi
luoghi di storia e di battaglia.
Mi stupisco
dell’affluenza, credevo meno, è una prima edizione e neanche tanto
pubblicizzata. Conosco pochi podisti. Non sono proprio gli stessi che incontro
ogni domenica, sono un po’ distante da casa.
Sembriamo tutti un po’
più goffi del solito in partenza. Il freddo si fa sentire prepotente, una
maglia non basta, bisogna proteggere anche testa mani e gambe, ognuno ha le sue
tecniche, io ho preso un sacchetto tipo spazzatura, lo toglierò al primo
ristoro. Non posso gettarlo prima, è un eco mezza, bisogna stare attenti
all’ambiente.
Il sole ci illumina, nel
cielo azzurro chiaro neanche una nuvola.
Partiamo. Piccoli
soldati colorati, ognuno a combattere la propria battaglia.
E’ un percorso sterrato,
le gambe vi corrono volentieri, più che sull’asfalto. Sassolini bianchi, poca
polvere, tra essi però ogni tanto pozze ghiacciate, terreno più morbido ed
insidioso, si cerca l’erba sicura, si sconfina a lato, nei campi.
Una costruzione ad
archi, antica, mi chiedo cosa sia. Il pensiero della cronologia mi accompagna
qualche metro. Mi piace l’idea di correre in luoghi che hanno visto la storia,
ma soprattutto mi piace essere in mezzo ai campi, in mezzo al silenzio di
questa giornata pallida e fredda. Vedo i podisti davanti a me salire sul primo
argine, quello del Bormida. Sembrano sagome ritagliate con le forbici, corrono
su una striscia di terra più alta rispetto a tutto qui intorno, gambe veloci,
figure alte e snelle, eleganti, all’orizzonte solo l’azzurro del cielo.
Sono anch’io
sull’argine, strada bianca con i sassolini, strada alta sui campi, guardo
intorno in cerca del fiume, ma è lontano, non si vede. Lo temo, invero, temo il
suo freddo, mentre, tutto sommato, anche se siamo sotto lo zero, il movimento
del corpo ha ormai scaldato la mia persona.
Una lingua bianca
ininterrotta sotto i piedi, un andare lontano, figure in movimento davanti,
qualcuno che ci ripensa, qualcuno che ti incita …
I ristori non sono
proprio ogni 5 km come nelle mezze ufficiali, ma quando li trovi sono
abbondanti e la gente preposta a darci un po’ di sollievo lo fa in maniera
generosa tra sorrisi e motti scherzosi. Eppure quanto freddo si devono prendere
lì fermi ….
I km passano silenziosi,
l’anima trova pace tra questi campi, l’inquietudine si placa. Sopraggiunge un
po’ di stanchezza, sintomo normale, capisco che d’ora in poi sarà lotta,
dominio della testa sulle gambe, carattere da temprare.
Ad un certo punto
incrocio il più forte, scortato da due ragazzi in bici. Senza frastuono.
Semplice come doveva avvenire in corse d’altri tempi. Vedo la sua espressione
tirata, i capelli che si scostano dal viso, i pugni chiusi a seguire il ritmo
riflesso delle braccia ondeggianti lungo il corpo. Le gambe esili si piegano
velocissime, sfiorano appena il terreno. Manca ancora qualche chilometro, ma
penso che nessuno lo potrà battere. E gli altri sono dietro, cani rabbiosi ad
inseguire la preda, così vicina eppure così dura da raggiungere.
Corro su di un argine
inferiore, ho passato quello del Tanaro, ora c’è quello del Po. I bravi sono di
fianco, sopra di noi, su quello superiore, figure che si stagliano in un
orizzonte a noi celato. Vedi il loro sforzo, senti il loro affanno, poi un
incrocio ci unisce ad un ristoro. Di lì sarà una storia di fango preannunciata
in partenza, si cerca l’erba, si vede il fiume sornione tra gli alberi spogli.
Poi si risale. Al ristoro vengo coccolata, mi stringono, mi danno il the caldo,
in una mano mi ritrovo un biscotto, manca solo il tavolino con la tovaglietta ricamata
… ho accettato tutto perché mi sembrava di essere scortese, ma per fortuna il
biscotto è biodegradabile …
Ci siamo, è quasi
finita.
Ultimo pezzo in asfalto,
c’è il castello, poi finalmente l’arco blu gonfiabile.
Sento per la prima volta
il dolore dei piedi. Non ci avevo fatto caso prima, eppure … vesciche. E
piaghette. Le scarpe sono vecchie, vanno cambiate. Compagne di troppe
avventure, faccio fatica a staccarmene. Oggi la loro suola ha respirato la
polvere dei campi, luoghi di silenzio, di storia e di battaglie lontane. Hanno
percorso 21 km che credevo non poter permettermi. Conoscono la lotta. Conoscono
la fatica.
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