martedì 12 febbraio 2013

Eco mezza da Botanpo a Potanbo - racconto di Gilberto Costa


"Non esiste inquietudine che, correndo, non si affievolisca e pigramente si dissolva".

ECO MEZZA DA BOTANPO A POTANBO
Piovera (Al)

Le gare di corsa, le ritrovi dove l’hai lasciate, interrotte.
Succede tutto  in un baleno, come chinarsi per allacciare le scarpe.
Una sorta inspiegabile di spostamento temporale. Ecco, le riprendi in quell’istante,
da quel palpito.
Simile a quando afferri delicatamente, ma deciso, la  mano di un bambino incrociando per la via nera volti sconosciuti.
Vuoi il braccio di un anziano che s’appresta ad attraversare una strada trafficata.
Raccogli quel filo magico, lo perpetri volesse il cielo frugando nello zaino/borsa in cerca di una spilla, che immancabilmente ti punge e ferisce.

Ritrovando mezzo spiegazzato un vecchio pettorale arrugginito dall’odore di fatica ancora impresso.
Rovistando nei ricordi della maglia, divisa che indossi ad armatura.
Addirittura nel livore meno peggio passeggero per aver dimenticato sul desco, nel buio dormiente  di casa,  in cucina, questo o quello.
Facendo affiorare dalla dimensione dei ricordi ognuno il proprio: il chilometro della crisi, quello che ti fa volare, l’altro che per cabala non leggi, oltre il quale torni a sperare.
Oppure lo riaccendi nell’istante d’un inciampo, nel saluto ad un ristoro. Ad un cinque,
un sorriso o incoraggiamento.
Altrimenti tormentando l’anima di domande.
Affidando a quella intatta, onesta fatica, all’amplesso del respiro, lo scoppiettio del cuore
che ti sale fino in gola, mastichi fra i denti, il compito di lenire gli urti della vita.
 Alla “figuraccia” da salame per un ruzzolone, capitombolo.
Alla felicità di avercela fatta a correre, in quanto non è mai scontato giungere a tagliare il traguardo.
La corsa non è bugiarda,  non mente, giammai fa sconti.
Ogni passo è sudato, metro di terreno strappato prima,
poi conquistato, ciascun respiro agognato, mischiato a sospiri.
Ritorna per incantesimo lo stupore nel  e provare l’emozione della partenza, come se vivessimo di soli inizi, esclusivamente di esordi, prime volte.
Accade  quando tutto  sorprende e nulla riesce a sopraffarti ancora.
L’angoscia dell’ attesa, la paura del debutto …
E’ pazzesco, tutto riemerge!
Piovera 86 m s.l.m  si trova nel bel mezzo della campagna, fra Alessandria e Tortona.
Ha il suo bel Castello di mattoni rossi, paramenti a lutto risalenti alla morte di Bonaparte.
Ha il suo pianto in marmo affisso alla facciata di una villetta poco dopo la partenza,
dove una linea nera, incide i ricordi a testimonianza dell’altezza raggiunta dalle acque vicine all’epoca dell’esondazione del “Tanì” risalente al tramonto del ‘94.
Una vecchia chiesa sconsacrata, adibita a teatro auditorio, oggi epicentro, fulcro della manifestazione.
Piovera, uguale: campagna, pioppaia.
 Pioppeti silenti, arruolati volutamente a guardia degl’argini del Tanaro.
Linee smagrite nella foschia della pianura brulla, sfinita dal grosso freddo, grasso carnevalesco, richiamata alla vita dal sorriso del sole Balanzone.
Lungagnoni lenti nell’essere, invisibilmente sommessi dal vento di dolore ivi espirò nello straripare del  “Tan”, conato di pioggia dell’alluvione del 1994.
Alberi simili ad un  reggimento mono arma, divisi in sfumati battaglioni, compagnie disposte a folate improvvise, nel teatro di battaglia; ove l’esercito amatoriale “Arlecchino” della domenica si è dato appuntamento, per un novello scontro a gambe levate, in una contesa lunga 21km della mezza di “Piòvra”.
Podisti appariscenti, colorati loro malgrado dal Napoleone inverno. Obbligati a vestirsi quanto la celebre maschera bergamasca.
Ridotti a celare le estremità delle loro ombre allungate, come macchie improbabili, nuvole nel cielo. Travestiti di gioia.
Ecomezza di Piovera, significa correre sull’argine basso erboso fra cascinali e piantagioni di inizio corsa.
Un tratto significativo, centrale, cuore della gara sopra un argine breccioso, posto a protezione, ultimo ostacolo alle frequenti tracimazioni dei fiumi Bormida, Tanaro e Po.
Gli ultimi chilometri su sentieri fangosi, acquitrini ghiacciati trappola per allocchi.
Nel concerto, il percorso ha palesato la sua bellezza, espressione di chete, immerso in una pace sollevante,  in un silenzio incontaminato.
Tragitto centrato nell’orizzonte su sfondo di colline discendenti che inducono il Tanaro ad innamorarsi del fiume Po, ad unirsi unici per sempre.

Di Gilberto Costa
“Il fiume l’ho visto: sornione, silenzioso. Potente piantagione acquosa”.

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