domenica 3 febbraio 2013

La mezza delle due Perle - il racconto di Elisabetta Iurilli


La mezza delle due perle
di Elisabetta Iurilli

“Arrivano i podisti, arrivano i podisti” Canticchia felice un runner dall’accento toscano fuori dal luogo adibito al ritiro pettorali. Sì è così. Durante la settimana sei solo a vedertela con la strada, solo con te stesso, i tuoi pensieri, le tue scarpe e quel nastro grigio che non finisce più. Poi arriva la domenica e ti rendi conto che quell’andare solo, tra occhiate di compassione, il buio, e il freddo che ti attanaglia, è una cosa che fanno in
molti, tutti quelli che sono un po’ come te, quelli che accettano le sfide.
Si preannuncia una giornata stupenda qui a Santa Margherita, un freddo vento sta spazzando il cielo dalle ultime nubi rimaste, il sole farà la sua maestosa presenza, il mare è più blu del solito e il golfo appare di una bellezza disarmante. Sono fiera di appartenere a questo suolo ligure, mi godo i commenti dei runners che provengono da altre regioni, l’ammirazione fa da regina, ma bruschi sopraggiungono i richiami alla gara; non siamo qui per turismo, noi siamo quelli che Santa ce la dobbiamo guadagnare!
In mezzo a tanti “foresti” le facce note dei miei compagni di squadra Genovini. Un po’ perplessi, al ritiro pettorale non ci hanno fatto pagare “Paga Mereta” ma Mereta non c’è … i soldi della gara sono gli unici che si tirano fuori volentieri quando non son troppi. Questa maledettissima crisi economica ha le sue ripercussioni anche nei portafogli di noi podisti. Peccato che non sempre gli organizzatori se ne accorgano!
Spogliatoio, scelta degli indumenti e via, un piccolo riscaldamento, un liberare le gambe, prepararle alla sfida, un mostrarsi tranquilli solo in apparenza nelle chiacchiere coi compagni ed amici. Non lo nego, io un po’ di paura ce l’ho. Non ho potuto allenarmi in questo periodo, in più naso tappato e tosse non facilitano di certo il mio respiro, ma so di avere tanta buona volontà e grinta, so che dovrò appellarmi soprattutto a loro, che dovrò lavorare di testa perché le gambe smetteranno presto la loro efficienza e inizieranno a lamentarsi. Due giri significa avere la possibilità di mollare dopo che ne hai portato a termine uno. Le scuse sono pronte lì sul vassoio d’argento, come l’anno scorso. Gli amici capiscono e consolano con le loro pacche sulle spalle, ma io no che non mi perdono. Oggi so che magari taglierò il traguardo sui gomiti, ma lo taglierò di sicuro.
Che bello quando dopo lo sparo il gruppo scappa … è una sensazione bellissima, attimi di concentrazione silenziosa, dove solo rimbomba il cuore e lo scalpiccio dei primi passi frenetici frenati dalla presenza dei tanti partecipanti ammassati addosso a te.
Quando raggiungi lo start senti il clic dei cronofrequenzimetri attivati, da quel momento puoi liberare le gambe, perché quello davanti ha già preso il volo e ora tocca a te iniziare il tuo.
Penso che questo sia il mio posto, il mio habitat naturale, qui in mezzo al gruppo di gente che corre come me, con me.
Come vedi sono qua … finchè questo cuore non creperà di ruggine, di botte o di età[1].
Maledetti 21, vi mangio!!!
Cinque chilometri dopo la penso un po’ diversamente. Sono quasi a Portofino, sono già sfrecciati di fianco a me i campioni con il loro devastante distacco rispetto al gruppo. Gazzelle leggere ed eleganti. Chissà a cosa pensano mentre vanno, chissà se ci vedono o sentono il tifo che facciamo per loro, il nostro incoraggiamento … se si distraggono un attimo è fatta, l’avversario ti prende e ti umilia, solo il primo viene ricordato, il centesimo di secondo del distacco della medaglia d’argento non fa storia.
Com’è diversa la mia corsa … ma è bella comunque, è una storia di vita e di fatica che lascia il sorriso.
Ci sono tre podisti vestiti con una tuta bianca a rombi rossi. Hanno anche un mantello nero, leggo che vengono da Viareggio. Ma mentre mi avvicino un po’ troppo a loro mi arriva una manciata di coriandoli verdi addosso. Il vento contrario ci mette lo zampino e io faccio merenda … non mi bastasse la tosse …
Portofino, piazzetta con fotografo, sorriso d’occasione. Poi quando guardo le foto ci rimango malissimo. Sempre quell’espressione da gita domenicale che mal si addice alla competizione che sto vivendo. Ai prossimi scatti mostro i denti, la rabbia, la grinta …
Torno su, di nuovo sulla strada, mi dico che però un po’ di gente dietro c’è ancora … corri Betta corri. Sguardo fisso sull’asfalto, sguardo di concentrazione, se perdo il contatto a causa delle meraviglie che mi circondano è finita, la mente vaga e non fa il suo lavoro, so che tra poco sarò stanca, ma non devo mollare, no.
Santa è lì, ora ci faranno girare dentro, cerco una persona, so che è lì piazzata da qualche parte e se non saluto ci rimane male … Eccolo, preannunciato da quella pancia di cui dice che io sono la responsabile. Mi guarda e sorride, non mi chiama come fanno i miei amici in gara, né mi fa forza. Sorride e basta. Ormai dopo tanti anni si è arreso a questa mia fissazione di chilometri domenicali. Sa che con la corsa non ci può combattere, è fiato sprecato. Viene di rado a vedermi, ma oggi c’è. E sorride paziente. Lo so, vorrei sentirmi dire “Corri amore, corri non aver paura …[2] ma è troppo, non ci arriverà mai.
Secondo giro e come nella mente di una schizofrenica si susseguono voci contrastanti e dialoganti tra loro: “allora ci credi davvero?” “Guarda che sei ancora in tempo a fermarti” “Non starla a sentire” “Quando guarderai il tempo finale allora si che rimpiangerai di non esserti fermata prima” Basta! C’è un fotografo là avanti anzi due, bisogna preparare la faccia … maledetta vanità che mi impone uno sguardo da dura … non ce la posso fare, è uno sguardo smunto, sofferente, semiscoppiato quello dipinto sul mio volto, altro che competitivo …
Inizio a soffrire. Come uno studente ad un esame che si arrampica sugli specchi delle poche nozioni imparate. Forse chi mi passa accanto se ne accorge, noi podisti conosciamo certe sensazioni. Qualcuno mi chiama, mi fa forza, il mio cuore ringrazia, la mia bocca non sempre riesce a farlo. E ritorna il ricordo di un paio di volontari del soccorso un po’ burloni, quando dietro ad una di queste curve, bombola di ossigeno in bella vista, mostravano un cartello su cui sopra c’era scritto: “Una boccata € 3,00”.
La salitina della chiesa di Portofino mi sembra un ostacolo insormontabile. Le gambe sembrano aver perso la loro fluidità nell’andare, la testa impone ritmi ed obiettivi a cui è difficile obbedire, il cuore fa quel che può. E’ dura, stramaledettamente dura. Bevo con avidità al ristoro, poi su di nuovo, illudendomi che quell’acqua sia rigeneratrice di nuove forze. Ogni tanto bisogna raccontarsela, piccole bugie per andare avanti qualche metro. Lo sai che non è vero, ma adesso hai bisogno di crederci.
Curva e mare blu, Santa è distante. Sguardo sull’asfalto, curve da tagliare, musica nelle orecchie per distrarmi dalla fatica. Sono sfinita. Ma ho promesso a me stessa che ce l’avrei fatta. Fra poco arriva il traguardo.
Sono gli ultimi metri i peggiori. Se non ci fosse tutta quella gente intorno camminerei di sicuro. Sento il fiato sul collo di un paio di persone dietro. Se mi distraggo un attimo, se mi rilasso guardando l’arco gonfiabile quei due mi prendono. Stanno tentando la volata, hanno voglia di superarmi, non li vedo ma intuiscono che sono uomini, agli uomini non piace chiudere con una donna davanti … corri Betta, corri, affidati alle tue gambe ormai di legno e un po’ appesantite dai mancati allenamenti, corri perché adesso devi dare il massimo, corri perché il secondo giro è finito, ce l’hai fatta, e quando corri sei viva …




[1] Luciano Ligabue Urlando contro il cielo
[2] De Gregori Rimmel

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