27th
Venice Marathon
Sono abbracciata ad uno sconosciuto e piango. Nella mente
una serie di flash di ricordi: le sveglie faticosissime della domenica mattina
all’alba, per correre i lunghi prima che il sole mi raggiunga opprimendomi, la
fatica di ritagliarmi lo spazio per le ripetute durante la settimana
lavorativa, i mugugni dei miei che non capiscono quanto per me sia importante
la corsa, questo traguardo durissimo e desiderato sopra ogni cosa, tagliato con
il mio corpo freddo e stremato dalla fatica. Sono felice. Ma le mie emozioni
cozzano tra di loro liberandosi, e producono lacrime. “Tutto bene, grazie!”
dico sciogliendomi dall’abbraccio del ragazzo che mi aveva stretto vedendomi
scoppiare. “Ciao!” risponde e mi avvio a cercare la sacca degli indumenti.
Qualcosa di caldo e asciutto per coprirmi …
… I’ve been waiting here so long,
but the moment seems to ‘ve come,
I see the dark clouds coming up again.
Running through the moonsoon,
beyond the world,
to the end of the time,
Where the rain won’t hurt
Fighting the storm,
Into the blue,
And when I loose myself I think of you …[1]
“L’abbiamo perduta!” Sentenzia Giorgio
vedendomi rinchiusa goffamente in un camice da chirurgo. “Sembri un portatore
di Cristi” ride Antonio e subito lo attacco permalosa “Almeno non ho freddo!”
Magari … Sotto il camice un sacchetto delle spazzature ritagliato per farci
uscire testa e braccia, sotto ancora gli abiti da runner che sembravano più
adatti alla situazione.
Il marito la sera prima mi aveva annunciato
la Bora, oltre alle altre disgrazie dell’acqua alta, della pioggia e
dell’abbassamento della temperatura, ma nella mia testa non ero nella città
giusta per quel vento, a Trieste la maratona l’avevo già corsa e senza problemi
di alcun tipo, perché mai ce li avrei dovuti avere adesso?
Poi, si sa, mentre si corre la temperatura
corporea si alza, e la pioggia, certe volte, quando non è violenta, è una
simpatica compagna.
Mentre raggiungiamo a piedi Villa Pisani
una splendida ottantenne in bicicletta si unisce a noi. “Passi pure” “No
ragazzi, sto con voi, ma fate la corsa? Quant’è lunga?” “42 km” “E riuscite a
farli tutti fino alla fine?” Massimo e io ci guardiamo negli occhi e senza
parlare ci mettiamo all’istintiva ricerca di qualcosa di ferro da toccare che
non si trova. Ci mancava solo …
Ci incanaliamo lungo il percorso obbligato
per la consegna delle sacche sui tir. Siamo in tantissimi, più di settemila,
altri novecento non se la sono sentiti di partire, c’è parecchia confusione,
stiamo cercando tutti di ritardare il più possibile il distacco dagli indumenti
caldi. Poi, un tir dopo l’altro ecco arrivare anche il mio. Lascio la borsa e
cerco i miei compagni persi durante il percorso.
I runner sono vestiti tutti in modo buffo.
Coperti da indumenti che si era deciso col cambio armadi di buttare via, ma che
per questa occasione vanno più che bene. Pigiami a manica lunga ormai
consumatissimi, felpe in colori improponibili, sacchi di qualsiasi materiale.
Ma il più bello è un ragazzo che indossa una vestaglia sexy piena di volant che
solo un’amante freddolosa poteva aver indossato!
Rivedo pian piano i miei tre moschettieri,
e con loro Roberto. Foto di rito, come ogni domenica in suolo ligure o
piemontese, chiedo informazioni sugli altri della sua comitiva. Sono già in
gabbia, anche Antonio sparisce presto, ognuno deve fare i conti con la propria
agitazione. C’è chi non potendolo evitare va incontro al pericolo, chi invece
cerca di sdrammatizzare cazzeggiando come me. Ma lo so solo io quello che ho
dentro …
Ecco gli hand bikers, noto Zanardi, penso
al mio amico Luca Gasparato che corre a piedi insieme al suo amico Pietro
Martire in hand bike. Allungo lo sguardo per riuscire a scorgerlo in mezzo alla
mischia, ma proprio mentre lo cerco in mezzo a tutta quella moltitudine, sento
la sua voce diffusa nell’aria, lo stanno intervistando. Grande Luca!!!
Raggiungo la gabbia con Massimo. I piedi
bagnati per ora solo dalla rugiada del prato, ma inizia a piovere. Intorno a
noi, oltre ai podisti, ci sono persone che con la corsa non hanno niente a che
fare. Non entrano nelle gabbie, stanno ad aspettare pazientemente che noi ne
usciamo per raccogliere gli indumenti che scarteremo. Ci sorridono e ci dicono
“Forza”, il cuore stringe un po’.
L’elicottero delle riprese televisive
volteggia sopra di noi. Alziamo le mani, salutiamo la mamma, davanti sono
partiti. Ci metterò ben sei minuti a raggiungere la linea dello start. Attimi
in cui il cuore batte forte, in cui mi dico che ho faticato per essere qui e
ora ci sono, in cui penso a tutti quelli che mi hanno fatto l’in bocca al lupo
e che oggi correranno con me nei miei pensieri. Attimi in cui sono felice per
ciò che sono e che sto facendo, e non capita spesso … sono carica, non temo
niente, ho addosso tutta la grinta del mondo, gli occhi della tigre, vai Betta vai!!!
Oltrepasso l’arco della partenza facendo
scattare il crono, mi libero del camice e inizio finalmente a correre.
Le gambe si liberano leggere. Assaggio
l’asfalto con frenesia, come se non lo facessi ormai da secoli, ne ho una
voglia matta di questa maratona. Noto due ragazzi vestiti di blu con le ali da
angelo e i palloncini da pace maker. Guardo l’ora che indicano e decido che
devo stare alla larga da loro. Cercherò i diavoli, mi dico allungando il passo,
e sono sicura che, ahimè, prima o poi la lotta con i demoni ci sarà, fa parte
della maratona, della lotta interiore che questa gara richiede ad ognuno di
noi. La maratona prima o poi ti scava dentro, ti mette a contatto con le tue
debolezze. La maratona è una lotta continua che si combatte da soli con le
proprie forze. Dove la forza della testa vale forse di più di quella delle
gambe.
Sono i primi chilometri. Decido di non
soffermare troppo lo sguardo sulle aste che indicano la distanza percorsa, è
troppa ancora quella da fare, tutto sommato questo è solo il riscaldamento. Si
fa per dire “riscaldamento”. C’è il vento che ostacola e in più piove. La
temperatura è bassa, mi chiedo come faccia la tanta gente ferma ai bordi della
strada a resistere solo per incitarci. Hanno portato anche bambini … Anche io
lo farei, prenderei Martina, la imbottirei di vestiti e piumini e poi la
porterei a vedere i corridori passare. Le spiegherei che non deve stancarsi di
battere le mani, che le deve battere più forte quando sono gli ultimi a
transitare, perché sono quelli che ci mettono di più il cuore. Non porteranno a
casa nessun trofeo, ma solo sensazioni meravigliose che non compaiono su
nessuna classifica.
La pioggia ci molla un po’, sono ottimista,
decido che il sacco delle spazzature non mi servirà più e poi non mi si vede il
pettorale. Vuoi mettere quando la gente ti chiama per nome? Così decido di
togliermelo e inizio a lacerare la plastica davanti come fosse una cerniera. Ad
operazione completata, due runner che avevano assistito alla scena mi prendono
un lembo a destra, uno a sinistra e il sacchetto mi viene sfilato di dosso
senza che quasi me ne accorga.”Grazie ragazzi!” Quanti grazie mi trovo a dire
durante questi 42 km, quanta solidarietà tra noi e con i volontari che ci
assistono. Che bello lo sport quando è sano!!!
Rincomincia a piovere, ho freddo e mi bagno
ma tanti mi fanno forza chiamandomi per nome. Penso al sacco buttato via e mi
sento un po’ imbecille, ma fa niente.
Il Brenta a destra con le sue acque verdi
che scorrono veloci è una bella compagnia, in ogni paese che tocchiamo tanta
gente fa il tifo, ci sono complessi rock, c’è un gruppo di ragazzi vestito con
costumi medievali che suona il tamburo e lunghe trombe al nostro passaggio, ci
sono splendide ville d’epoca, ma anche il vento, tanto e furioso, che ci spinge
in direzione contraria. E’ freddo questo vento, lo senti penetrare dentro,
insinuarsi tra i tuoi indumenti bagnati, e raggiungerti le ossa. Passano pian
piano Fiesso d’Artico, Dolo, Mira e Oriago e io mi stupisco sempre un po’ del
fatto di essere già lì, di non aver fatto fatica a raggiungere quei posti. E’
come se i km si susseguissero leggeri. Ho la gioia dentro, sarà per questo che
sento poco la fatica.
“Dove sei stata cosa hai fatto mai? Una
donna … dimmi, cosa vuol dir sono una donna ormai?” Già cosa vuol dire? Mi
chiedo ascoltando ben volentieri la canzone di Battisti cantata da un gruppo di
giovani sorridenti imbacuccati a lato strada. Essere donna, gran
bell’avventura, essere fragile e forte, moglie, madre, custode di segreti …
saper fare le tagliatelle, la maglia, ma anche una corsa di 42 km … ecco cosa
vuole dire essere una donna. E quelle che ho intorno, ne sono convinta, sono
tutte come me, se non meglio!!! Per gli uomini è un po’ diverso … riescono a
fare poche cose bene in contemporanea, ma noi li perdoniamo e vogliamo loro
bene lo stesso.
Malcontenta. Mi chiedo il perché del nome
di questa località. Il percorso ci porta lungo zone industriali, battute più
che mai dal vento. Ho freddo, la pioggia continua a scendere, il cielo è scuro.
Cerco di evitare le pozzanghere, ma non si riesce a saltarle tutte. I piedi
sono freddi e le scarpe appesantite. Eppure là il cartello indica il 20esimo
chilometro, ci siamo quasi.
E’ dopo la mezza maratona, poco dopo il
21esimo chilometro che la gara ha inizio davvero. Prende corpo la
consapevolezza di essere in piena maratona, non in una gara qualunque. I
cartelli con le distanze a venire saranno tutti guardati con gran rispetto ed
onore.
Il vento continua a batterci implacabile.
Una forza costante che ci spinge in direzione opposta al nostro cammino, ci
sbatte, ci raffredda, scoraggia tanti, ad alcuni crea malori. E in più piove.
Acqua gelida che ci appesantisce, ci ostacola. Faccio mentalmente il ripasso
delle corse disputate in condizioni avverse: una Mezza di Monza
disgraziatissima nel 2011, ben tre edizioni su tre del trail di S. Croce e in
più vivo e mi alleno a Masone. Può bastare, non ho alibi, Betta continua col
cuore in pace.
Mestre ci accoglie in festa. Tanta gente,
per noi un passaggio obbligato nel cuore della piccola cittadina. Battiti di
mani generosi. Poi compare un sottopasso, ci infiliamo là dentro urlando. Tutto
intorno rimbomba, sono cose da bambini un po’ cresciuti quelle che facciamo.
Usciamo e ci avviciniamo sempre più a Parco S. Giuliano. Lo temo un po’. La
volta scorsa che ho corso qui a Venezia ho sofferto le pene dell’inferno nel
parco, ho avuto lì la mia crisi. Ricordo che ovunque vedevo gente correre,
sembrava di essere in un labirinto, non pareva mai di poterne uscire. Ma in alto
c’erano gli aquiloni, ne ricordo uno con un’aquila bellissimo. Oggi non possono
volare gli aquiloni.
Mi avvio mesta a percorrere le stradine in
salita e in discesa. C’è tanta gente, penso che i parenti per lo più aspettino
o qui o all’arrivo. C’è aria di festa. Ho freddo, vedo quello che mi sembra un
miracolo, una brocca da cui esce qualcosa fumante. Mi avvicino, porgo una mano.
Il mio guanto nero è in condizioni orribili. Sporco di banana e di muco del mio
naso. Chiedo scusa a chi mi porge un bicchiere e ricevo un sorriso. Il the è
caldo lo assaporo, mi sembra di non desiderare altro dalla vita che un buon the
caldo.
Riprendo a correre, vedo podisti che
corrono tutt’intorno, di nuovo quella sensazione di labirinto … corri a testa
bassa Betta, altrimenti arrivano i demoni, a testa bassa … e così vedo le
pozzanghere, le ginocchia sanguinanti per lo sfregamento di una podista davanti
a me, i tatuaggi di tanti polpacci, le scarpe zuppe, i tantissimi bicchieri in
terra … e finalmente esco dal parco, senza crisi e quasi a Venezia.
E proprio lì inizia l’inferno. Quattro
chilometri che chi ha corso questa ventisettesima maratona della laguna non
scorderà facilmente in tutta la sua carriera podistica. Ponte della Libertà,
quello che collega la terra ferma a Venezia. Da sempre, per la sua posizione
lungo il percorso, deputato a luogo della crisi, ma oggi vero e proprio
sinonimo di tormento e dannazione.
Al primo passo sopra di esso vengo chiamata
a spostarmi verso destra dall’urlo veloce di una sirena d’ambulanza. Un malore.
Poi ne capisco il motivo.
Il vento è fortissimo. Una cosa mai vista
né provata fino ad ora. Spinge in direzione opposta al senso di marcia, è
gelido. La pioggia cadendo e venendo a contatto con l’aria si ghiaccia. Quando
percuote il viso è come se le guance fossero trafitte da mille spilli. Guai a
fermarsi. La bora spazzerebbe via, i muscoli si raffredderebbero troppo. Vai
avanti Betta, non pensare ad altro che a finire questo ponte, resisti, mi dico.
Corro curva, per fendere meglio l’aria, per ripararmi. Cerco il riparo di
runner più grossi di me, delle corriere della corsia destinata al traffico.
Evito però gli sguardi delle persone in auto. Il vento mi penetra, mi scuote,
avvolge e raffredda. “Mi toglieva l’aria” mi dirà all’arrivo Giorgio “mi mancava
il respiro, correvo col capo girato”. “Mi ha paralizzato le braccia, ad un
certo punto non sono riuscito più a muoverle” per telefono Massimo mi spiegava
la sua avventura “Betta ho temuto che capitasse anche alle gambe …”
I bicchieri scartati al ristoro del
trentacinquesimo vengono sparati verso di noi come proiettili. Cerco di
evitarli. La situazione mi sembra assurda, vedo due che si tengono per mano
correndo, voglio anche io qualcuno a cui aggrapparmi. Siamo tutti muti.
Scoraggiati, a capo chino. Ho freddo sono stanca. Arrivano i demoni. Quelli
personali, che mi dicono che non dovrei essere lì, che il mio posto è altrove,
non con la corsa che amo, ma a casa, intenta nei miei doveri di figlia, madre
moglie … questa è la giusta punizione, ricordo Paolo e Francesca … amanti in
mezzo alla tempesta, dannati ad essere percorsi dal vento per quell’ “… Amor, ch'a nullo amato amar perdona ... Amor
condusse noi ad una morte …”[2].
Il contrappasso loro è anche il mio. Soffri Betta per la tua passione,
soffri per l’amore che hai per questo tuo correre …
Ma quanto è lungo questo ponte … la mente è
vuota, per scacciare la disperazione mi soffermo sulla musica che passa il mio
mp3. Il congegno trasmette Lindbergh di Fossati, che afferma che “… Difficile non è partire contro il vento,
ma casomai senza un saluto …” Ma vai, vieni qui a dirlo che poi facciamo i
conti … ma poi penso ai saluti degli amici, al loro modo di sostenermi e farmi
forza, in quanti mi hanno commosso col loro semplice farmi gli auguri. Questi
ultimi metri sono per loro, perché quella gente lì ci rimane male se mi
arrendo. Forza Betta, scaccia i demoni e vieni fuori da questa situazione!
Arranco ancora un po’, ma poi tra il sollievo
generale il ponte finisce.
Ed è Venezia, città della laguna, con il suo
porto, il sapore di Santa Maria della Salute che speri di veder comparire al
più presto. Iniziano i ponti, quelli piccoli che sei felice di percorrerli
perché sei a fine gara. L’acqua alta che hai un po’ paura che ti trascini via,
ma ci sono lì tanti volontari a guardare che nulla di brutto ti possa capitare.
Ecco la chiesa nella sua strepitosa bellezza,
poi il ponte di barche. Alcuni non riescono a fare il primo gradino se non
aiutati dal personale, le gambe sono troppo dure e affaticate. Betta goditi questi
attimi mi dico mentre mi sembra di camminare sull’acqua che abbraccia Piazza S.
Marco. La gente fa un tifo incredibile “Vai Elisabetta, vai!!!” ma ad un certo
punto, qualche ponte dopo mi chiamano più affettuosamente Betta, mi giro
automaticamente, riconosco Massimo e la moglie che urlano contenti il mio nome
a più non posso. Vedo laggiù il traguardo.
E come al solito mi prende il magone. No
Betta resisti, ci sono i fotografi, almeno dopo aver tagliato …
[1] … Ho aspettato questo
momento così a lungo, ma sembra che il momento sia arrivato, vedo che le nuvole
nere stanno arrivando di nuovo, corro attraverso il monsone, oltre il mondo,
alla fine del tempo, dove la pioggia non ferirà, combatto contro la tempesta,
nella sofferenza, e quando perdo me stesso penso a te … Tokio Hotel, Mosoon
[2] Dante Alighieri,
Inferno, canto V
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