24 Maratona d’Italia
Memorial Enzo Ferrari
Mi sveglio prima che suoni l’allarme della mia sveglia, c’è trambusto in corridoio e nella mia stanza sta entrando odore di canfora.
E’ arrivato il giorno della maratona, il “Carpi diem”.
I vestiti sono pronti dalla sera prima, la maglia ha già il pettorale spillato, le scarpe hanno fra i lacci il chip, solo un’incertezza sui pantaloni da usare, li indosso lunghi, deciderò poi se tenerli o preferire i corti. Un leggero trucco agli occhi sperando che non coli col sudore e poi giù per la colazione.
“Zignorina, la navetta è zà lì che aspetta, z’è da sbrigarsi …”
Fantastico, ci avevano detto alle sette e mezza, ha un’ora di anticipo, ma la colazione la faccio lo stesso. Saremo una trentina tra italiani e stranieri. Volti tesi, poche parole. Ci si studia un po’. Maglie con nomi di gare altisonanti, quasi un rito apotropaico, come quando i guerrieri antichi mostravano le insegne dei popoli vinti per terrorizzare il nemico presente. Ma ora si lotta soprattutto con noi stessi e la maglia serve a ricordare che in altre occasioni siamo stati bravi, ce l’abbiamo fatta.
Per fortuna tra i tanti podisti noto un volto amico, Marchetti c’è. O lui o Roberto o entrambi, qualsiasi maratona uno faccia li incontra.
La navetta parte da Modena con destinazione Maranello. Fuori è il freddo della notte che sta lottando con il sorgere prepotente dell’aurora. E’ bellissima l’alba, è il momento della giornata che preferisco, l’attimo in cui il cielo diventa fucsia, rosa poi arancione e il sole si lascia guardare senza accecare. E’ una palla di fuoco imponente e forte che si prepara a dominare la nostra giornata, a scandire i nostri ritmi. E’ il momento in cui tutto tace, tutto è sommesso e per strada ci sono solo i turnisti e i runner.
A Maranello siamo in tanti. Di qui partono gare su diverse distanze. Ci sono i pattinatori, gli hand-biker, e noi podisti che ci fronteggiamo sui 21, 33, e 42 km. Trovo bellissimo il miscuglio di tutti nello spogliatoio comune, dove pattini, protesi e scarpe da ginnastica si mischiano senza rivalità, ma con la consapevolezza che qualsiasi attività si vada ad intraprendere nessuno avrà sconti in merito di fatica e sudore.
Quello che mi colpisce sempre in queste situazioni di promiscuità pre gara è il fatto che ognuno, sia uomini che donne, guarda alle proprie gambe, al proprio fisico, non lancia occhiate indiscrete al vicino/a, siamo tutti impegnati a massaggiare e coccolare i nostri muscoli, a cui sappiamo che chiederemo tanto, degli altri poco ci importa.
Ultimo saluto a Marchetti e poi in giro a curiosare. Di riscaldarmi non ci penso neanche, farò già troppi km, non ne voglio aggiungere altri, però una bella stiratina ai muscoli … e intanto guardo a che punto della gabbia è segnato il mio pettorale. Ho una bruttissima visione che scaccio prima possibile. Poi al momento opportuno cerco di inserirmi nella parte di tracciato destinata agli ultimi partenti, ma vengo cacciata via da un robusto buttafuori. “Non z’infiltri zignora, il suo posto è più avanti, e via le cuffie veh!” Obbedisco quasi a tutto, cioè passi per la gabbia, ma le cuffie le tolgo solo in partenza e nei vari traguardi lungo il percorso. Che male faranno poi … Quello che mi preoccupa è lo start con i top runner, chissà quante gomitate prenderò da chi mi supera, rischierò milioni di sgambetti, mi metto laterale che è meglio, ma tutte (la gabbia ospita solo le donne oltre ai migliori atleti) abbiamo gli stessi pensieri e quella laterale è la fascia dove ci accalchiamo di più.
Il tempo passa e la tensione sale. Chiudo gli occhi. Penso agli allenamenti sotto il sole caldo, la sveglia presto la domenica mattina rinunciando al sonno di cui avevo bisogno, i chilometri in solitaria, i tratti di strada di cui conosco a memoria i fili d’erba, i sassi e le mattonelle, la fatica occorsa, i sacrifici fatti per essere qui ora. Prego in cuor mio che le mie gambe facciano quello per cui sono state preparate, e che la testa imponga loro sempre ordini giusti e segua la volontà di portarmi al traguardo senza farmi perdere quando sentirò la strada divorarmi ed inghiottirmi. Con il cuore invece interrompo le comunicazioni. Temo mi distragga con le sue stupide malinconie, meglio non ascoltarlo oggi.
Le pale dell’elicottero ronzano sopra di noi, alziamo le mani, è un attimo, poi lo sparo … e il sogno ha inizio.
Se li pensi, se con il cervello riesci a vederli i 42 km, sembrano un’impresa impossibile per una come me. E’ “tanta roba” tutta quella distanza … E ora sono qui a percorrere quella lunghezza da sognatrice incosciente, chissà cosa spero di trovarci … in realtà lo so cosa cerco. Cerco me stessa, quella che lotta e che resiste, ma anche quella che ha paura di scoprirsi fragile. Cerco qualcosa che calmi le mie inquietudini, che mi emozioni, un attimo di eroismo e uno di pazzia mischiati insieme.
Forse con la consapevolezza che:
… sarà forse un’assurda battaglia ma ignorare non puoi
che l’Assurdo ci sfida per spingerci ad essere fieri di noi …[1]
Di Maranello non noto quasi nulla. C’è gente ai lati della strada, ma ci siamo soprattutto noi che corriamo i primi chilometri con le ali ai piedi. Una pendenza favorevole, un invito a dare di più, la voglia delle gambe imbrigliate in partenza di liberarsi e farci volare. Pian piano i chilometri si susseguono al suono metallico dei cardiofrequenzimetri che abbiamo ai polsi e dipinti a grandi caratteri nei cartelli ai lati della strada. La gente ci guarda e fa il tifo. Alcune volte scorgo volti perplessi, altri solamente curiosi. Non c’è impazienza né clacson adirati, semmai rispetto.
Un bellissimo castello medievale ci annuncia Formigine.
Il paese è in festa, veniamo accolti tra battiti di mani e urla d’incoraggiamento, ma la voce di uno speaker accentra l’attenzione sul beniamino locale, un signore di ottant’anni che sta correndo con noi la sua maratona. Il cuore sta per intervenire ma lo zittisco in tempo. Niente malinconie, non è il caso. Continuo il mio percorso in terra di Lambrusco e tortellini, pensando alla fortuna di conoscere bellissimi pezzi d’Italia grazie alla corsa. Prima di questa gara io Carpi manco sapevo che esistesse… Quanti bei campi in giro, terra a riposo, terra che ha prodotto, pianure che finiscono solo dove oltre non arriva lo sguardo.
Mi raggiunge un po’ di Genova nelle sembianze di Sandra. Sta facendo uno dei suoi lunghi in preparazione di New York. In tanti fra i partecipanti alla 33 km cullano il suo stesso traguardo. E’ bello ritrovarsi qui come nelle gare più corte la domenica vicino a casa, senti che non stai facendo tanto di diverso da sempre, anche se oggi ti senti lo spirito un po’ più guerriero, è come dare un giusto peso alla realtà.
Ecco Modena, la città che ho scoperto solo ieri al mio arrivo, quella di cui conoscevo unicamente il duomo per averlo studiato sui libri d’arte medievale. L’ho vissuta da turista a naso in su per ammirare tutte le meraviglie architettoniche, ho assaggiato la sua prelibata cucina e ascoltato quel bel modo di parlare che tanto mi diverte. Oggi corro tra le sue strade maledicendo la pavimentazione ad acciottolato, ma Marchetti mi aveva parlato di una bella sorpresa … Eccomi davanti ad un tappeto blu, si sente il rimbombo di passi su tavole di legno, veniamo introdotti nel cortile d’Onore di Palazzo Ducale. E’ il cortile dell’Accademia Militare, dove cadetti in alta uniforme sono disposti ordinatamente su due lati a farci il loro saluto con sorrisi e battiti di mani. Sento un tuffo al cuore nel percorrere questo passaggio, non sono militarista, ma mi commuovo ugualmente, così come mi commuove di lì a pochi metri l’inno d’Italia suonato dalla banda. Dico al cuore di farsi ancora una volta i fatti suoi, glie lo dico con le parole di un emiliano:
… ho fatto un patto sai
con le mie emozioni
le lascio vivere,
e loro non mi fanno fuori …[2]
Modena significa anche mezza maratona. I primi 21 km sono andati, il tabellone segna il mio solito tempo su questa distanza, le gambe hanno ancora parecchia voglia di correre, insomma, tutto a posto. Il prossimo traguardo sarà quello dei 30 km, anzi 33, perché l’organizzazione ha voluto la coreografia di Castello Campori per incorniciare il traguardo.
Osservo i nomi delle società podistiche intorno a me: non so se preferire la “Fiacca e debolezza” di Bologna o la “Guidati dal Lambrusco”, ma ce n’è anche inneggianti a Forrest Gump. Nomi insoliti per il panorama podistico a cui sono abituata, ma indubbiamente più divertenti.
A lato una coppia di podisti. Lei urla dal dolore, lui la consola. L’assistenza medica qui è ottima, si ferma subito un’ambulanza, cui segue un medico in vespa.
Alcuni allungano il passo, siamo quasi al secondo traguardo, il tifo a bordo strada è quasi da stadio, tre podiste si tirano urlando i rispettivi nomi, vogliono arrivare insieme, ma stanno soffrendo tutte e tre. Forti … c’era un cartellone che inneggiava alla forza delle donne da qualche parte, di sicuro loro se lo meritano.
L’arco del traguardo, poi il castello bellissimo, chi come me prosegue ci passa dentro. “Da qui inizia la maratona” mi viene da pensare. Di solito lo penso al ventunesimo, non so perché ho rimandato il pensiero, forse però la testa aveva già avuto le prime avvisaglie e voleva “tirare” ancora un po’, risparmiarmi per qualche chilometro.
Penso che sono solo nove i chilometri che mi separano dal traguardo, “poca roba” quasi insignificanti, e mi godo la vista delle vigne. Foglie accartocciate, rossicce, gialle, marroni, i colori indefiniti dell’autunno. Sono vigne di Lambrusco, ma somigliano tanto a quelle del Dolcetto dei miei paraggi.
Trentacinquesimo, mi accosto al ristoro, acqua e mezza banana perché fa bene, non perché mi piaccia. Proseguo ancora un po’ e poi lo sento, sempre più forte, un dolore cieco e assordante che pretende che dopo quasi due mesi finalmente mi prenda cura di lui. Non ci posso credere, in allenamento nessuna avvisaglia, perché tradirmi oggi? Mi guardo il piede, quell’alluce porco, che mi pare di vedere attraverso i fori delle scarpe, richiama sempre più la mia attenzione. Rivedo la panca cadergli sopra, il piede nudo, compreso solo tra qualche laccetto di un sandalo col tacco altissimo, il dolore lancinante subito, il primo pensiero “la maratona” il secondo “sarà rotto?”. Avendo paura di affrontare la situazione, da codarda, l’ho ignorata. Non ho corso per qualche giorno fingendo impegni improrogabili e quando mi sono decisa a rimettermi in moto ho ignorato qualsiasi sintomo provenisse dall’estremità destra. Quando ho visto l’unghia diventare tumefatta mi ero persino convinta che la panca avesse picchiato solo lì, che non fosse stato preso tutto il dito e che per una falange non mi sarebbe capitato nulla. Ho solo cambiato colore di smalto alle altre nove dita, dovevano essere tutte dello stesso colore, ecco l’unica cura …
“Maledetta” mi dico, “Maledetta me, questo dolore e il giorno che ho deciso di iscrivermi. Mi sono iscritta dopo una lite, arrabbiatissima, l’avevo fatto per sfogarmi e ora mi ci ritrovavo imbrigliata dentro. Dalla padella alla brace. Mille fattori negativi si erano messi tra me e Carpi, troppi, una persona ragionevole avrebbe finito col cedere, col capire che non era cosa da farsi venire qui. Io no, testarda, ho preso un impegno, l’ho preso con me stessa, inseguo un sogno, e se è sempre più difficile inseguirlo vuol dire che è quello giusto … Belinate!!! Ora son qui sto male, sono sola e ci mancano 5 maledettissimi chilometri che non riesco a correre. Se prendo Filippide gli faccio il culo, anche se è morto da un po’, anzi lui è morto appunto per questa faccenda, ma siamo sicuri che Atene disti da Maratona 42 km e rotti? 37 non bastano? Ma io mi ritiro prima. E cosa faccio, torno indietro al 35? Non mi potevo sentire male dove era prevista una stazione di ritiro?”
E tra questi e simili pensieri mi trascino fino quasi al quarantesimo. Il rumore di un mezzo alla mia sinistra, è il pulmino della Croce Rossa, miraggio. Sbircio dentro. Altro che nove posti, ci saranno ammassati 20 atleti, per me non c’è posto neanche lì, non c’è posto in nessun posto, nessuno mi vuole … quando sono triste sono patetica.
Allora la finisco questa gara, fan c… a tutti …
Gli ultimi due chilometri li faccio insieme ad un podista del posto. Sono visibilmente arrabbiata, lui mi parla, io non sempre gli rispondo, sono scontrosa, sono io nel mio lato cattivo. La maratona tira fuori il meglio ma anche il peggio, scopre il lato autentico di ognuno di noi.
Ecco la piazza con la sua chiesa e il suo castello, l’arrivo, il traguardo tanto agognato. Mi trovo a sorridere, non solo perché ci sono i fotografi, ma perché io quel traguardo lo volevo e lo stavo perdendo, e invece era lì tutto per me. Lo speaker urla il mio nome, allora è proprio vero, sono arrivata …
Sotto l’arco magico trovo il podista con cui ero stata cattiva. Mi aspetta, mi abbraccia, scoppio a piangere.
E’ imbarazzatissimo. Gli dico che mi capita sempre dopo una maratona, di non farci caso, è una reazione nervosa, ma lui mi sussurra parole sulla vita, parole dolci che non scorderò mai, che mi toccano il cuore nel profondo. Lo raggiunge un amico, mi dice di sedermi, si avvicina al mio piede, quello che ha fatto i capricci, e delicatamente mi slaccia la scarpa e mi sfila il chip. Mi sento tanto Cenerentola …
Poco dopo incontro Marchetti, mi chiede com’è andata ci scambiamo pareri ed emozioni. Mi dice che domenica prossima sarà a Pescara a correrne un’altra, mi chiede i miei programmi “Non so manco se corro domenica prossima …” ma in cuor mio so che non sarà così, che di sicuro da qualche parte del Piemonte o della Liguria saluterò come sempre il giorno di festa correndo alla faccia di qualsiasi alluce dolente. E in barba a qualsiasi condizione meteo so di sicuro che lo farò indossando la bella magliettina verde con su scritto “24esima maratona d’Italia”.
Grazie ancora una volta x quanto hai saputo trasmettere...
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