Trail di Santa Croce
di Elisabetta Iurilli
La piccola chiesa di Santa Croce sembra vicina. Sembra che allungando una mano la si possa toccare. E invece misurando le distanze mi accorgo che sono ancora lontana, lontanissima, che la salita è di quelle che non da tregua col suo muro di erba fradicia che sale in verticale, niente attimi di respiro. Allungo un piede, scivolo nel fango che ricopre tutti i sentieri fra le pietre, guardo in alto. La pioggia fredda che cade incessantemente da quando siamo partiti percorre spietata il mio viso. Il vento fa il resto. Mi accorgo di avere
fame, di essere stanca e poco lucida.
“Suvvia che l’anno prossimo ci si scorda di tutta questa fatica e ci si iscrive di nuovo …”
La scorsa stagione podistica, ogni volta che vedevo qualcuno gareggiare con la maglietta tecnica recante il logo del trail di Santa Croce non riuscivo a non chiedere racconti e impressioni su quella gara a chi l’indossava. Ne uscivano soprattutto risate, si parlava di pioggia e di nebbia come se solo lì in quel giorno fossero veramente esistite. Sembrava più la descrizione di una prova di sopravvivenza che di un trail. Per me era stato un po’ il battesimo su questo tipo di gare corse per monti. Oltre a una ricerca del tutto personale sui luoghi di origine della persona con cui condivido la mia esistenza.
Quest’anno gli eventi climatici sfavorevoli sembravano ripetersi come da copione.
“Non c’è la nebbia” Ripetevano orgogliosi gli organizzatori, come a toglierci parte della penitenza che sembravamo auto - infliggerci da lì a poco.
Il popolo degli skyrunner chiamato a raccolta aveva risposto accettando la sfida. Sono bellissimi gli uomini e le donne che praticano questo sport che sa di natura e di aria aperta. Sguardi fieri e decisi che conoscono il pericolo e i propri limiti. Si coprono il capo con un berretto per ripararsi dalla pioggia, hanno giacca a vento dalle mille tasche, zaini minuscoli con dentro tutto ciò che può servire loro in caso si perdessero, pettorale sulla coscia, bastoncini ad aiutarli nelle discese e scarpe con la terra ancora attaccata sotto da chissà quale altra impresa … uomini dalla barba lunga o accennata, non di certo fatta la mattina stessa, un aspetto da rude ostentato, donne guerriere, con nessuna cura della messa in piega, ma con occhi che perforano e coraggio da leonesse.
Saluto Gilberto, so che darà il massimo, arriverà tra i primi, si emozionerà lungo il percorso e tradurrà tutto quello che al suo cuore donerà quest’avventura in racconti e poesie.
Saluto la Susy coi suoi occhi di ghiaccio e la grinta da vendere.
Noto alcune defezioni … non sanno quello che si perdono …
Al via ci si allunga da quota zero agli 828 metri del monte Uccellato. Ho scelto il percorso breve non competitivo conscia delle mie possibilità.
La pioggia cade continua rendendo lucida la crêuza che percorriamo come primo assaggio del nostro andare. Mattoncini rossi scivolosissimi al centro, si cerca di stare ai lati. Non sempre è facile, non sempre è possibile.
Il mare diviene sempre più un ricordo grigio ai nostri piedi. Le case minuscole miniature.
Inizia lo sterrato. Ricordo il pezzo aperto sulla vallata sottostante. Mi impongo di non guardare sotto. Le vertigini, da quando mi sono innamorata di questo tipo di corse, sono diventate ostacoli che si possono tenere a bada usando la forza della ragione ed i suoi mezzi.
E proprio quando cerco di distrarmi da questo pensiero conosco Ljuba. Corporatura esile, passo più o meno simile al mio, ma perché non si vuole sforzare … ne intuisco le potenzialità su un percorso più agevole. Mi dice essere la sorella di Ilaria Pasa, la campionessa. Penso alla gioia di poter condividere le stesse passioni tra sorelle, a quell’intimità che deve legare i loro passi e i loro destini. A noi, grande pubblico, sono note solo le imprese e le vittorie di Ilaria. Mi chiedo come sia una vita all’ombra, e lo chiedo anche a Ljuba. Mi risponde con estrema dolcezza, appagando ogni mia curiosità. “Sono tanto felice per lei quando vince …”
Siamo in un tratto scoperto, battuto dal vento. La salita è particolarmente aspra, bisogna quasi arrampicarsi. Penso a dove mettere i piedi, qual è l’appoggio giusto, devo pensarci alla svelta, scegliere in un attimo la pietra a cui affidare il peso del mio corpo sperando che non si muova sotto di esso. Un passo falso e con questo vento potrebbe succedere il peggio … il berretto che ho calcato sul capo si stacca da me e prosegue il suo viaggio tra la natura in solitudine. Ljuba mi dona la sua fascia, testa e orecchie sono di nuovo al coperto. Lei si lamenta per il freddo alle mani, più tardi sarò io a darle i miei guanti con la speranza che le procurino un po’ di sollievo.
Il freddo si fa sentire sempre più. Oltre la pioggia il nevischio fa la sua presenza. Lo intuisco dai fiocchi gelati che mi pungono freddi il viso. La sensazione è quella che piombino addosso minuscoli spilli ghiacciati spinti dal vento forte
Erba e fango sotto, questo posto deve essere bellissimo visto col sole. Col capo chino verso il basso vedo alcuni fiorellini cedere alle intemperie. I fiori sono belli, gentili, colorati, non hanno però la forza di lottare, si lasciano sopraffare …
Primo ristoro. Ci viene offerto the caldo. Veniamo coccolati dai volontari che stanno fermi, esposti alle intemperie più di noi che ci muoviamo. Ho una foto scattata qui lo scorso anno. Ero immersa nella nebbia e infreddolita come adesso …
Ci dicono che siamo a metà del nostro percorso, ma stentiamo a crederlo. Comunque sia bisogna ripartire, andare di nuovo incontro alla tempesta, cercando una chiesetta con la croce …
La discesa è fatta di sentieri di fango. Terra liquida in cui sprofondano i nostri passi. Le scarpe diventano come lisce al di sotto. Vedo le impronte dei tanti che mi hanno preceduto. Alcune sono come solchi di un pettine che si dipartono in orizzontale dal cammino. Segni evidenti che lì qualcuno è scivolato. L’appoggio è incerto, certe volte sfrutto a mio favore lo scivolamento, altre lo temo. Cerco l’erba, ma anch’essa si rivela una via insidiosa.
Ljuba ha sempre più freddo alle mani, cerca altri guanti dai runner che vede intorno, poi decide di fermarsi. Io sono tentata di seguirla. Ma poi capisco che è solo una malinconia passeggera, la paura di proseguire da sola il mio cammino. Si è sempre soli nella vita, nonostante ci si illuda dell’opposto. E nonostante il freddo, la pioggia e la fatica sto facendo qualcosa che mi appaga. Sento il mio cuore leggero, i miei pensieri liberi, le gambe in cerca di nuove sfide. Non avrebbe senso mollare ora.
Il sentiero scende in modo lieve e facilmente percorribile. Ma è solo per pochi metri. Poi arriva il pezzo che per me è stato uno dei più brutti. La striscia di terra è stretta e maledettamente liquida sotto i miei piedi. Cado la prima volta. Mi rialzo, tutto a posto, riprendo, ricado. Anche questa volta niente. La terza volta mi prende un po’ di sconforto. Non so se perché intuisco di aver rotto i miei fuseaux preferiti, o perché realizzo che non riesco più a stare in piedi su quel tratto di percorso. Ma come spesso accade, nelle difficoltà si tira fuori la parte migliore di sé e io mi ritrovo a correre, saltare, mischiare passettini a falcate, con una paura immane di rimanere un pezzo di fango nel fango.
Intuisco di esserne fuori non appena vedo un runner correre verso la mia direzione, ma provenire dalla parte opposta alla mia. I due sentieri delle diverse competizioni si uniscono. Provo un moto di gioia nel mio cuore, e la soddisfazione che prende sempre quando si supera un grande ostacolo
Alcuni metri sul sentiero comune, poi una sorpresa. Un uomo mi sta per sorpassare, gli facilito, l’impresa, ma lui si blocca nel farlo. Ci si guarda, ci si scruta. I suoi occhi me li ricordo sulle pendici di un monte nei pressi di Paraggi, dove entrambi, provenienti da sentieri diversi, cercavamo di iniziare bene il 2011. La domanda rimane sospesa nelle nostre menti, nessuno dei due ha il coraggio di rivolgerla all’altro. Mi fa forza e prosegue il suo cammino.
Al ristoro mi dicono che il peggio è passato, che ormai c’è un pezzo bello e poi la salita a Santa Croce, ma, minimizzano, quando sei lì è praticamente finita …
Mi accoglie un paesaggio tipicamente ligure, col bosco che sa anche di ulivi, e sotto ci sono persino i limoni gialli a fare contrasto luminoso col grigio del mare e del cielo. Corro felice, la mia anima inquieta placata dalla fatica e dal divertimento. Sento nelle gambe un po’ di stanchezza, ma ormai dicono che manca poco.
Ultimo ristoro. Sento parlare toscano. Una cadenza e dei modi di dire che mettono subito allegria. I runner di Prato sono indecisi se continuare il cammino o ritirarsi. Più di metà del loro gruppo ha scelto la seconda opzione, ma a loro dispiace non finire l’impresa. C’è anche un ragazzo di Genova, che come me è recidivo riguardo questo trail. Ricordiamo entrambi di non aver fatto troppa fatica a salire a Santa Croce l’anno scorso.
Non sapevamo che quest’anno il percorso era cambiato. Che la salita si presenterà spietata, che ci prenderà l’anima e ci taglierà le gambe …
Mi ritrovo in breve a lottare con me stessa, a maledire la mia ostinazione, la pioggia, il vento, il cielo e tutto il creato. E lo faccio mettendo un piede dietro l’altro, cercando un appoggio che non sempre si rivela il migliore, chiamando Piero, il toscano di Prato che si è accorto della mia fragilità emotiva in questo pezzo di strada …
“Suvvia che l’anno prossimo ci si scorda di tutta questa fatica e ci si iscrive di nuovo …”
Sono al traguardo, dopo la salita c’è stata la discesa. L’ho percorsa correndo e staccandomi dal gruppo, non perché non stessi bene in loro compagnia, ma perché avevo un freddo cane e solo muovendomi potevo combatterlo.
Smarco il chip notando negli organizzatori un sorriso come di sollievo. O è una mia impressione? So di averci messo tanto, ma non m’importa, mi ero concessa il lusso di non lottare contro il tempo, ma di godermi la mia avventura. Mi sento appagata da ciò che ho provato nel mio andare.
Sono interamente coperta di fango, penso che solo dopo una bella doccia incomincerò a ragionare veramente di nuovo.
Per ora so solo una cosa. questo trail lo continuerò a fare finché non ci vedrò il sole …
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