PORTOFINO RUN 2014 SANTA MARGHERITA
LIGURE CORSA PODISTICA DI 10 KM
[foto di Rita Marchet]
La gara invece è un infliggersi
necessario. Testa le più mere velleità, pone
innanzi alla oggettività inesorabile, inflessibile, senza appello.
L’asfalto, il percorso, non contano; si è
costretti a lasciare tutto al di la, fuori da quel cono visivo che proietta la
fatica nella sfida disperata contro l’abisso delle proprie complessità.
Così ieri l’occasione propizia a Santa
Margherita Ligure, di scena la Portofino Run. Dieci chilometri intelligenti, un anticipo messo in scesa come
antipasto della Mezza delle Due Perle in
programma la domenica del giorno dopo.
No, non mi sono divertito. Non ci riesco.
E’ raro che accada in gara, impossibile se questa è breve.
Non ne ho il tempo. Pronti via e
sono già immerso, un’apnea infinita
senza respiro gravato dalla difficoltà di tenere il mio sandalo in linea di
galleggiamento. Ho sofferto tanto, come sempre troppo.
Malgrado ciò non mi sono sottratto allo
scontro lungo i rettifili, curve e saliscendi andati in frantumi dalle
precipitazioni piovose dei giorni scorsi, rese pozzanghere immobili,
trappole
silenti.
Il percorso schiacciato al monte
dall’immenso specchio di sale fermo, gigante disteso, completamente
pianeggiante, ha offerto il suo riflesso all’incommensurabile volta,
irriconoscibili in una stretta livida.
Sagome indistinte di corpi abbracciati,
amanti che si guardano, comunicando in un silenzio assordante prima di fare l’amore.
Le evoluzioni dei pennuti
bianchi, artisti impegnati a disegnare il cielo nel loro simulare la
morte in mare, unico e indiviso momento di sospensione temporale dello stento.
I passi bagnati dei contendenti lungo la
poderosa fisicità del monte appassionato
al litorale risuonano come tonfi di speranza, vanificati dal dolore che risale
fino al cuore impazzito spinto in gola dal suo stesso rumore.
I muscoli degradati dall’acido lattico perdono elasticità, fuori
controllo finiscono per piangere lacrime di bile.
In preda al panico non si scorge più
nulla, non ci si volta, terrorizzati di mostrare la propria scomparsa in volto
a chi ci segue. Sospiro fatuo e consolatorio quando non si odono spettri in
avvicinamento.
Si guarda oltre, alla fisionomia lontana
di chi ci precede, sagome deformi, macchie in movimento che scivolano lente nella curva, sfumano all’orizzonte. La
vista orbata dal pianto di dolore che emerge come un’eruzione improvvisa di un
vulcano sottomarino.
La corsa è energia, correre è sollievo, ci si libera da i mostri che ci
abitano dentro.
Si distanziano, allontanandoli nella
perenne fuga dalla sofferenza che il caos ha disseminato lungo la corsa della
vita.
E’ come vedere il sole nonostante non si
guardi, riuscire a perdersi nel celeste benché celato dal mantello bigio che
riveste la terra.
Fine corsa segna l’interruzione della fatica. Lo
sforzo a contatto con l’arrivo rilascia
endorfine di gioia.
La pace s’instaura sostituendo seppure
per breve tempo l’angoscia che vive interiormente.
Delusi
e soddisfatti, vincitori e battuti si colorano di parole, in un forsennato
vociferare di tempi e giustificazioni.
Presto
dimenticheranno e torneranno a gareggiare in corsa nell’eterno calendario
podistico della vita.
Di Gilberto Costa
Nessun commento:
Posta un commento