“Al podista interessa
unicamente la strada sotto i propri passi e quella sensazione di sgravio e
liberazione che la corsa ad ogni metro gli strappa e restituisce”
MARCIA DEL
ROCCOLO
Arenzano, elettrica, la
sua luce ammaliante, lo spettro della primavera che riappare tremolante.
Gli immensi recipienti
celeste, azzurro e blu cobalto si uniscono in un unico immenso salto.
Il cielo, il mare,
sagomati dalla carezza del vento che
soffia ombra fredda, scivolando dai pennacchi bianchi del Beigua, sospinto dai
balzi sereni della sua custode osservatrice.
L’ordine curato della
Pinetina, il silenzio verde che custodisce, scosso unicamente dai tonfi delle
aspettative dei costretti della strada.
Il mare appare
improvviso, profondo, iracondo fra le fronde. Irregolare.
Un pugno nello
stomaco in fondo la discesa.
A fatica ecco il
litorale. Corre mastodontico di traverso. Pugnalate profonde al costato,
inferte al fegato.
Il muto dolore da una
parte contrapposto alle persone a passeggio spensierate.
Gli occhi sofferenti gettati
in cielo, nel mare. Lasciati rotolare in terra, calpestati dai nostri stessi
passi.
L’imbuto ovale delle
gallerie, buchi neri che ingollano e rendono informi di fatica.
Masticano e sputano
fuori dalla miniera, ciuchi ciechi, orbi dallo stento.
Vasi comunicanti
impietosi. Echi di dolore maledetti.
Le curve si fanno lente,
si muore poco a poco. Brevi resurrezioni attimi fuggenti.
Le scatole di lamiera non capiscono il nostro
salire scomposto,
gesticolano impazienti … accidenti!
Il mare d’asfalto agita
onde anomale, ostacoli, di fatica lungo il
percorso.
Si combatte strenuamente
contro la risacca del ritorno.
Il santuario è sospeso,
galleggia nel mare della mente. Distrae e confonde.
L’agonia sportiva sembra
non aver fine. La lotta è contro noi stessi, non ci sono avversari.
Veder a fianco la stessa
luce fioca che lenta affievolisce sui volti di chi guerreggia,
misurandosi contro la
propria condizione solleva tutti, reciprocamente,
in una sorta di “mal
comune mezzo gaudio”.
C’è massimo rispetto, è
tangibile, si spezza con le mani come il pane.
I cavalli, non finiscono
mai. Pigri si lasciano strigliare dal nostro passaggio.
Ad un tratto, quando non
c’è più battito, si lasciano i remi della propria zattera alla corrente
e si piange la resa, la
solitudine della sconfitta, ecco come uno schiaffo
l’arrivo dietro la
curva!
“Le corse,
intese gare, a parer mio sono tutte durissime. Infernali! A renderle tali i
nostri limiti.”
Di Gilberto Costa
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