Turin
Marathon 2013
Stefano
Balbi al primo tentativo è sceso sotto le tre ore.
Mi stavo arrendendo. Lo
avevo già fatto dopo pochi km. Sono partito senza cognizione alcuna, allo
sbaraglio.
Due forse 3 km sotto la
media. Ho ascoltato altri che parlavano di 3' 50 sec al km. Sciagurato.
Mi sono chiesto che cosa
ci facevo a Torino. Sono sazio della precisione borghese di questa città
quadrata, non ho scopo in questa domenica.
Torino mi ha battezzato
alla maratona, mi ha regalato la forza di valicare il muro delle tre ore;
quindi?
Cosa posso chiedergli
ancora?
Prima di Moncalieri fra
il 7° e il decimo una gran voglia di pisciare. Un podista non piscia nel mentre
combatte, semmai lo fa intanto che persevera nella sua lotta.
Così respingo anche
questa sensazione fastidiosa, ma resta in me quell'impellenza.
Corro dietro, al fianco
di Stefano Balbi, compagno di squadra. Raramente davanti. Non
posso permettermelo; a Stefano correre gli riesce naturale; diversamente io mi devo trascinare!
posso permettermelo; a Stefano correre gli riesce naturale; diversamente io mi devo trascinare!
Scorrono i chilometri
con essi le sentenze di Stefano: 4'15" 4'17" 4' 20" ma anche 4'
09" 4' 12" etc. quindi in linea con le tre ore. Un raggio laser
che riuscivamo tener dietro. Una linea immaginaria, oltre la quale tutto viene
spazzato via, distrutto. Bruciato.
Intorno al ventesimo la
fatica accumulata smisurata rispetto al chilometraggio. L'orgoglio di non
sfigurare mi corre in aiuto. Che figura ci faccio se mollo proprio
ora
quando la battaglia è
solo schermaglia.
Al 27° km il primo vero
contraccolpo psicologico: il laser delle tre ore si avvicina fin quasi a
sfiorarci, bruciare la pelle.
Il carro al quale è
fisso sta cancellando la terra sotto i nostri piedi.
Stefano aumenta, lo fa
con naturalezza, io stento. Combatto col demone che sabota la sfera della
volontà.
Il tratto è in favorevole
lieve pendenza, appunto mi domando: come mai tutta questa fatica?
Come faccio a
proseguire, sento male dappertutto. Arco plantare del piede sinistro, alluce e
ginocchia del destro, addirittura il sopra sella!
Sento i tonfi del
mio cuore. Lo ascolto. Un vecchio locomotore che fa servizio giornaliero in
una campagna desueta de i primi del ‘900.
Origlio le folate di
vento dei miei polmoni, vessati in passato da mille sigarette. Il fumo denso
della capitolazione li asfissia. Che disastro.
Aspetto i trenta come
una sorta di benedizione. La vera maratona inizia all'incirca a quelle
latitudini. Ho esperienza,
e poi mi esalto quando
si fa dura. Amo combattere nelle difficoltà. Riesco a tirare fuori il meno
peggio di me stesso.
Inizia la nausea, voglia
di cacciare. Vomitare i mostri che abitano le mie viscere. Salgono fino in
bocca s'impastano alla saliva, si appiccicano al palato.
Scivolano nel fiele del
fegato che pulsa dolore.
Al 33° km cedo per la
prima volta in modo significativo. Corro disperatamente, ma non è sufficiente,
non basta!
Non ce la faccio, mi
stacco venti metri che sembrano chilometri.
Mi scrollo, provo di
farlo. L'unico modo che conosco è quello di mettermi a nudo di fronte alla mia
coscienza.
Sono alla sbarra,
l'arringa severissima, mi condanno. Riesco a strappare una postilla, una
promessa al mio (me stesso) giudice:
Prova a rientrare, un
unico tentativo. La sentenza dopo di che sarà inoppugnabile. Condanna
definitiva.
Rientro per miracolo, e
per qualche chilometro godo di questo effimero successo, ne traggo sollievo.
Al 37° chilometro, ecco
giungere puntuale lo scontro finale. Dentro o fuori.
Non posso, non voglio
arrendermi adesso. Non avrebbe senso.
Prendo il respiro,
raccolgo le frattaglie che sono rimaste di me e procedo in apnea.
L'unico pensiero che
fisso in mente è quello di non mollare. Il resto lo lascio fuori.
Odio: ho odiato ... i
viali interminabili, odiato qualsiasi suono: il ticchettio impazzito dei raggi
che girano le ruote, le catene delle
biciclette che si avvicinavano, seguivano precedevano. Chi le montava.
Odiato il rumore del mio perire, morte
sportiva.
Odiato questa voglia di non cedere. Odiato
tutto il mio orgoglio.
Ha
dell’incredibile, l'odio mi ha condotto al traguardo. L'odio mi ha guidato
all'arrivo. L'odio mi ha consentito di restare sotto le tre ore. L'odio
mi ha insegnato a farne uso positivo, trarne forza.
Per
comprendere una maratona domandate ai volti, leggete i visi di coloro che la
terminano.
La
Maratona cambia i connotati!
Di Gilberto Costa
viabraia@alice.it
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