mercoledì 27 novembre 2013

Firenze Marathon di Elisabetta Iurilli

Firenze Marathon 2013

“C’è il sole! Il sole il sole il sole!!!” ballo, salto su e giù dal marciapiede faccio caos in mezzo ad un vicolo fiorentino ancora assonnato alle 7 della domenica mattina. Mio marito guarda lo spettacolo che sto mettendo in scena con un misto di disapprovazione e commiserazione. Ma la mia gioia è incontenibile. Quasi tutti i lunghi sotto l’acqua, che man mano che passavano i mesi diventava sempre più fredda. Vestiti appiccicati, scarpe zuppe e pesanti da sollevare … il ricordo della terribile giornata di Venezia 2012 ancora nella testa … oggi no!!! Oggi avrei corso baciata dal sole fiorentino, 42 chilometri desiderati, sognati e preparati con fatica e determinazione da tre mesi e mezzo e ottocento km di allenamenti … chi non corre ci dà per pazzi, ma infondo cos’è la vita, e la corsa, se non “ … un brivido che vola via, tutto un equilibrio sopra la follia?”[1]
Colazione da podista poi di nuovo nel vicolo ad aspettare Massimo e gli altri ragazzi. Vestita dell’essenziale. Di ciò che fa correre senza dare fastidio, più qualcosa che copra in partenza e che scaldi all’arrivo.
Si parte tutti insieme, destinazione Lungarno. Tempi, obiettivi, paure, percorsi, le mura altere di Palazzo Pitti col suo bugnato rustico, il cartello del 19° km, “qui ci siamo alle …” dicono i ragazzi, “fin lì ci arrivo” penso
io carica di tutte le mie insicurezze. Poi Ponte Vecchio, salita innocua che al 39esimo però sembra letale. Podisti in posa prima della grande fatica, gli ultimi scatti, allegria contagiante, siamo tutti un po’ su di giri. In breve la nostra diventa quasi una processione. Un tipo mi aggancia, vede che vengo da Genova mi chiede della mezza, i ragazzi rispondono per me, illustrando date e difficoltà di percorso. Pian piano si intravedono i camion del deposito sacche, il secondo è già il mio, ci separiamo augurandoci buona gara. Mi spoglio della giacca ma anche della felpa. Indosso solo la maglia societaria e due bellissimi manicotti bianchi, il ricordo della maratona di Torino. Niente guanti, solo il sacco per coprirmi in partenza. Fa abbastanza caldo per una runner di Masone eh eh eh!!!
Riprendo la processione verso le gabbie di partenza.
Siamo tutti accalcati, un’auto si fa largo a fatica in senso opposto al nostro. Contiene la carrozzina di un disabile. Disabile? Uno che non si ferma davanti agli ostacoli semmai. Un duro, uno che non molla. E che bello il nostro sport che si apre a tutti …
E’ il caos. Forse siamo in troppi da gestire, forse siamo arrivati proprio tutti insieme, ma è difficilissimo raggiungere la posizione di partenza. Siamo tutti pigiatissimi, non si riesce ad andare avanti di un centimetro. Ad un certo punto decido di scavalcare un muretto d’argine, di trovare una scorciatoia, un percorso meno affollato anche se nell’erba e nel fango. Ed eccomi arrivare di fronte alla mia gabbia. Mi guardo in giro … qualcuno da Genova certamente ci sarà … forse è la strizza, ma mi viene un attacco di malinconia … voglio i miei “colleghi” della domenica mattina, anche quelli antipatici, ma non fatemi stare qui da sola!!! Ma laggiù ecco materializzarsi la Susy in splendida forma, per fortuna, ci abbracciamo, giusto il tempo di sentire 3,2,1 e si parte!!!
Le gambe scalpitano, la musica forte dà la carica, i parenti lungo le transenne fanno il resto … sono gasatissima … penso che esserci sia bellissimo, è un’emozione fantastica, difficile da descrivere. E’ un brivido. Si è lottato per questo traguardo, si è sudato, plasmato il proprio corpo, ogni singolo muscolo ha conosciuto la fatica. E ora il percorso ha inizio. Tanta gente intorno, ma si è da soli quando si pensa di non farcela più, di averne abbastanza, quando la strada ci metterà alla prova per vedere quello che siamo veramente, cosa siamo capaci di fare. Si può tirare fuori il proprio meglio o il proprio peggio. Sta a noi decidere. Ma la maratona non ci lascia come prima. Se si porta a termine fino in fondo con umiltà tempra, fortifica il proprio spirito. I suoi doni li scopri strada facendo. E poi ci fa sentire eroi, anche solo per un giorno!!!
Viali alberati sgombri d’auto. Tutto fermo tranne noi. Qualche persona assiepata ai lati ci sorride, ci dice che siamo forti. Noi si è allegri. Carichi. Maglie con società podistiche di ogni parte del mondo. Tutti a difendere i propri colori, ma tutti uniti in un linguaggio comune, quello dello sport. Mi chiedo quando arriverà il Parco delle Cascine, sono curiosa di conoscerlo, ho girato più volte Firenze in lungo e in largo, ma il Parco non l’ho mai visto. Parcheggiato ad un incrocio compare un autobus turistico con sopra una band musicale. Sono davvero bravi. Tutti ci giriamo a battere loro le mani. Ecco un tunnel. E nei tunnel il vero podista, non quello che se la tira, urla. Grida liberatorie rimbombano verso l’alto, mi sento un po’ scema, ma in quel frastuono mi ci trovo, mi piace, mi diverto.
Ho caldo, mi danno fastidio i manicotti, ho sbagliato ad indossarli. Ne tolgo prima uno, il più facile, poi slaccio il crono e mi privo anche dell’altro. Sono preziosi. Li sistemo alla bene e meglio mezzi dentro ai pantaloncini. Ne pende una parte. Due code bianche che si allungano sulle mie gambe. In foto sarò orribile.
Stiamo entrando nel parco. Un’auto suona il clacson, si sentono le moto … stanno passando i primi!!! Li intravedo solamente: velocissimi, neri, esili, la falcata ampia, sembra che volino. Poi il vuoto. Solo dopo molto ecco gli inseguitori, ma compaiono solo per un tratto, poi il mio percorso non li incrocia più. E’ tutto verde e giallo intorno, autunno amabilissimo, con le foglie che cadono, coi colori cangianti. E’ bello questo parco, si è nella natura, ma non ne capisco il verso, l’inizio e la fine, e questo mi inquieta un po’. Vengo raggiunta da una maglia conosciuta. E’ Remo della Vallescrivia. Che bello! Un altro genovese qui a Firenze!!!
Il parco finisce, si costeggia l’Arno, altra musica dal vivo, di nuovo la gente che ci fa festa, si va verso Porta Romana, ci sono ancora fiato e gambe, per fortuna, ma manca parecchio.
Palazzo Pitti nuovamente, e il cartello ad indicare che si sono corsi 19 km. “Betta!” mi sento chiamare. E’ Gigio con dietro mio marito intento a fotografarmi. Penso che sia il momento opportuno per liberarmi dei manicotti, li sfilo dai pantaloni e li lancio correndo verso di loro. Saprò all’arrivo di averli persi per sempre. Sarà motivo di lite coniugale.
“Tra poco inizia la maratona” mi dico vedendo il cartello del 21esimo. Perché nella mia testa la gara è sempre iniziata dopo l’arco della mezza. Da lì si inizia a sragionare e soffrire. Ma intanto ecco l’arco, la gente a festa intorno, la band, e l’Arno, attraversato più volte in questa gara, fino a perdere il conto di dove si è, se al di qua o al di là.
Di nuovo città moderna, viali, gente ai lati che batte le mani, persino una riga di suore giovani e straniere sventolanti la bandiera italiana, la mano tesa a dare il cinque. Compaiono però ancora case e cemento mentre io mi sto rompendo, voglio i monumenti rinascimentali, l’arte, il campanile di Giotto, la galleria degli Uffizi, qui è come correre in centro Genova … sto perdendo colpi. La corsa diventa più pesante. Vedo Luca, lo raggiungo, scambiamo alcune impressioni, ma dov’è la Santa? “Avanti” dice, “Ha visto altri due di Genova, si è rimessa in moto nonostante il dolore all’anca …” Ci sono atleti così: per loro l’età o le condizioni fisiche sono solo un piccolo dettaglio. Generosi con gli altri, ma severissimi con se stessi. Sono nati per la sfida. Immagino la mia amica correre contro tutto e tutti, mentre finge di non sentire quel suo dolore sordo. Se ne ricorderà solo al taglio del traguardo e si riempirà di arnica dopo la doccia.
Mi sento ancora più meschina in confronto a lei. E’ la testa che detta legge, e la mia è stanca di tutto quell’incedere. Devo tenere duro … e mi viene in mente la bella immagine di lunedì, la mia tesi di laurea a 43 anni. La convinzione che la maratona mi ha insegnato a dosare le forze, a soffrire sui libri proprio quando il cervello si stava adagiando a ritmi ben diversi, fino a regalarmi la gioia finale del titolo accademico. Se ho tagliato quel traguardo posso tagliare anche questo.
Intanto il centro si avvicina. Il Duomo, il campanile di Giotto, i luoghi dove si è fatta la nostra storia, la nostra cultura, dove hanno camminato i grandi del sapere, della storia e dell’arte. Tutto strepitoso, emozionante, la gente sembra impazzita al nostro passaggio, urla, battiti di mani come fossimo i primi. Le gambe magicamente si rimettono in moto, recuperano grinta. Piazza della Repubblica, vi ho passato un pomeriggio indimenticabile con mia figlia quando era bambina. La cerco tra la folla, non c’è più … ora è una donna anche lei.
Lungarno nuovamente. Com’era la storia di lavare i panni in Arno? C’entrava la lingua italiana vero? La mente sta vaneggiando ho bisogno di distrarmi, leggo le magliette dei podisti davanti “42 km con un litro … di birra” “Se mi sorpassi ti guardo il c …” “la mia prima maratona” “Iran free” ce n’è per tutti i gusti. No quella salita no, quella la cammino … e se c’è Beppe a guardarmi qui a Ponte Vecchio? E invece so benissimo dove si trova … gambe sotto il tavolo a gustarsi una bella fiorentina … ma non potevo fare anche io una bella gita enogastronomica al posto di voler correre per forza per 42 km? Sono stanca, stanca morta, mi danno fastidio i sanpietrini, ma anche le lastre di pietra. Mi danno fastidio i cartelli con la scritta di sorridere perché ci sono le telecamere che fanno il video, la gente ai lati che da ferma e riposata ci incita, i maratoneti che hanno finito la loro gara avvolti nel domopak con la medaglia a penzoloni e che, beati loro, stanno tornando in albergo … non ne posso più … vedo i camion rossi dove ho lasciato la sacca, penso che dovrò fare altra strada per andarla a recuperare e quasi mi viene da piangere … me la prendo con Filippide come al termine di ogni maratona … Filippide è il pensiero di quando sono stremata, allora forse sto finendo davvero … sì sì sto chiudendo … e mentre mi si para davanti l’arrivo ecco piombarmi addosso come un flsh il ricordo degli allenamenti, i primi da gasata, gli ultimi, i più duri, le ripetute, la pioggia, i visi dei podisti incontrati tutte le domeniche tra Voltri e Varazze, il nostro reciproco stimarci, i saluti anche se non ci si conosce, gli amici che hanno condiviso le mie fatiche, quelli che intaseranno il mio telefono tra poco, la fatica, la cocciutaggine, quel senso di irrequietudine che solo la corsa placa, questo pettorale importante con cui ho corso, affidato dal caso e recante la data di nascita del papà e gli anni che aveva quando è mancato … piango come ad ogni traguardo, quando mi danno la medaglia e mi avvolgono nella coperta termica. Sono lacrime calde, dense di emozioni, liberatorie. Mi fanno sentire fragile, nonostante la medaglia mi ricordi che, in fondo, sono anche io un po’ eroe … almeno per un giorno!!!




[1] Sally, Vasco rossi

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