mercoledì 18 aprile 2012

Trail de Gorrei - racconto di Elisabetta Iurilli


Trail del Gorrei.

“Betta, lo facciamo insieme il Trail del Gorrei?” “Magari …” e in quel magari c’era tutta me stessa. Con la mia vita complicata, le giornate troppo corte per fare tutto, figuriamoci per allenarmi per cotanta impresa. Però che tentazione … non me lo chiedeva una persona qualunque di correre con lui, me lo chiedeva Giovanni, il responsabile della mia vita podistica, senza di lui io non saprei niente di quello che si prova con un paio di scarpe di ginnastica ai piedi.
Come fare a dire di no?
Masone mi ha visto sveglia presto, correre nel buio a cercare le salite. Ho maledetto il mio fiato pesante, il passo goffo, i chili di troppo, l’urlo cieco dei polpacci che bruciano, il non riuscire a correre con una determinata pendenza. Ho cercato le discese ripide nello sterrato, ho tentato di vincere il timore di cadere, ho rovinato un paio di scarpe …
Poi è venuta la paura. Di chi soffre di vertigini ma ha voglia di volare. Dei burroni che mi bloccano le gambe, di un eventuale fango che non mi fa proseguire sul sentiero, di rompermi una caviglia, una gamba, di non riuscire ad arrivare.
Nelle mie ansie ero incoraggiata e consolata dai sogni di un amico, anche lui iscritto a questo trail, ma per il percorso lungo …
… immagino di cadere, ruzzolare
in un burrone ed il telefonino si rompe in mille pezzi. Beh, prendo il fischietto, nell'impatto però la pallina che c'è dentro salta fuori, ci metto una pietrolina
ma è pesante, provo ad urlare, non ho voce, allora recupero il "telo termico" quel foglio di "cuki" che mettono sulle spalle a fine maratona, ma una
folata di vento lo tramuta in aquilone ...
Non mi resta che scrivere un enorme help con le pietre sperando in un elicottero attento, nessuno capisce l'inglese, accidenti.
Provo ad accendere un fuocherello, non c'è vegetazione, uffa!!!
Allora prego la natura, parla al suolo d'un tratto volo.
Fine del sogno.[1]
Vedo le foto di Giovanni su Facebook. E’ vestito da runner, è in un posto magico da cui pendono decine di salami. Dice  che si trova lungo il percorso di gara … Si sta allenando, penso. Non posso sfigurare …
Piove, non fa che piovere il giorno prima, penso ai sentieri, ai fiumi di fango che mi aspettano, ai prati pregni d’acqua, alla giacca che fa solo finta di essere impermeabile, al freddo di questa primavera. Poi, magari, domani Moretti di Ponzone mica lo trovo …
E invece, su e giù con Danilo per le colline madide del Piemonte, riusciamo a trovare alla prima anche il piccolo paese della partenza. E’ la simpatia di Beppe a stemperare un po’ la mia ansia, o forse il fatto di essere ormai lì, di fronte al mio destino ineluttabile e fortemente voluto.
Danilo è al suo primo trail, il battesimo, fa un sacco di domande a cui vorrei saper rispondere, trova strano il modo di calzare il pettorale alla coscia, è divertito da questo nuovo ambiente in cui conosce ben pochi di quelli che frequenta tutte le domeniche nelle gare su strada.
Io riconosco i miti di queste imprese, ne sento parlare, ne vedo le foto, ne ammiro l’agilità e la forza. Ora sono qui in carne ed ossa e per un pezzo di strada fanno anche il mio percorso!
Abbiamo tutti un’aria un po’ selvaggia ed incosciente. Sono felice che nessuno dei miei familiari mi veda in questi momenti.
Arriva anche Giovanni, anche lui in tenuta da uomo duro. Da tempo non ci si vede. Mi viene da sorridere se penso alla sua tenuta giacca e cravatta, quando ancora mi sembrava un uomo serio …
“Cosa succede Betta?” All’epoca ero una sua cliente, e lui il mio rappresentante di penne e accendini. Ero entrata nella mia tabaccheria col muso lungo di chi ha appena avuto una brutta notizia. Avevo da poco iniziato a correre, ma, da profana, avevo sbagliato tutto ciò che potevo sbagliare. A cominciare dalle scarpe che mi avevano cotto i piedi e fatto cadere le unghie. “Si dia alla calzetta, non corra più neanche per sogno” era stato il responso di un medico con qualche chilo di troppo. Avevo iniziato a raccontare il verdetto a Giovanni quando lo vedo slacciarsi le scarpe lucide, togliersi un calzino e farmi vedere il suo piede nudo. “E’ più o meno così anche il tuo? Lascia stare quello che ha detto il dottore. Sono un maratoneta, dai che ti do due dritte!” Mi aveva ridato speranza, fatto correre e infine introdotto nell’ambiente podistico. Un paio di gare insieme, poi io avevo continuato per la mia strada e lui aveva smesso. “Mi sono stancato” mi aveva detto mentre lo ascoltavo incredula. “Come Forrest Gump!”
Il cielo ha voluto baciare ogni partecipante in partenza per mezzo della sua pioggia. Era forse il suo modo di sfidarci. Il via è arrivato sulla musica di Rocky, mentre i più urlavano un liberatorio “Adriana, Adriana!”
Una salitina in partenza, poi inizia una lunga discesa di sterrato, un sentierino ci mostra il primo fango su cui si riesce a fatica a stare in piedi, ma ci si aiuta, vedo mani che mi sorreggono, altre che mi recuperano nel momento difficile, grazie!
Al primo guado un’asse fa da passerella. Non mi bagno le scarpe, penso, ma i piedi sono già fradici. Si corre su e giù per sentieri, prati, spunta anche un laghetto, vicino c’è una casupola. In giro è’ tutto bagnato, i fiori hanno il capo chino, gli alberi gocciolano sulle nostre teste, le scarpe a tratti sono pesantissime, ma non desidererei essere altrove. Mi sto divertendo da matti a correre, schizzarmi di fango, prendere Giovanni e farmi prendere, rotolare sulle pietre, fra le pietre, guadare corsi d’acqua senza paura di immergermi fino alle ginocchia in una giornata fredda. Ci sono i burroni, se non guardo giù non ho paura, il panorama altrove è da urlo, lo immagino in una giornata più clemente, voglio tornare, fatico in salita, ansimo, penso che i polpacci questa volta sanno il fatto loro, i bastoncini affondano nel terreno, scaricano le mie spinte, mi aiutano in salita. Com’è bello questo trail!
Poi Giovanni diventa taciturno, una smorfia di dolore, un crampo. Il primo di una lunga serie. “Tu vai!” “No!” rispondo fiera. Siamo solo al decimo chilometro. Ne mancano più del doppio. Arriveremo tardi, ma per me il mio amico ce la può fare. Ha anche smesso di piovere, a tratti un po’ di nebbiolina, ma abbiamo la fortuna di conoscere Andrea e Laura che ci accompagneranno fino alla fine. Abbiamo più o meno la stessa età, la vita piena di guai, la passione per lo sport, per la natura, ci si racconta come se ci si conoscesse da sempre. E intanto i chilometri scorrono sotto i nostri passi, il paesaggio diventa a tratti aspro, come quando a mezza costa il fango non ci lasciava salire nel bosco, a tratti ospitale come nella splendida pineta o nel tratto prima del bivio per i quarantasei km.
Giovanni fatica ma non molla.
Dopo un sentierino stretto su un costone di un precipizio intravedo una splendida cascata. Mi si apre il cuore, è da poster, bellissima, il vero premio per aver fatto tante fatiche. Andrea dice che la dobbiamo attraversare. Io ci ho preso gusto a questo contatto con l’acqua, tanto a saltellare sulle pietre che portano dall’altra parte non ci riesco, e le caviglie un po’ ne traggono giovamento. E’tutto splendido, mi godo il momento, la mente sogna, il cuore è appagato, si può ripartire. Siamo quasi arrivati. Giovanni mi dice che ha seriamente pensato di non farcela. Chissà quanto ha sofferto, ma è stato un duro, ha tagliato il traguardo. Lo tagliamo insieme, mio marito ci aspetta, scuote la testa. “Non ti ho perso neanche questa volta …”


[1] Gilberto Costa

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